Lo scontro titanico tra ragione e passioni, raziocinio ed emozioni, o in tempi più recenti tra intelligenza razionale e intelligenza emotiva, ha alimentato per millenni il dibattito tra i filosofi di ogni epoca, tanto quanto le dispute tra le persone comuni. Senza soffermarci sul susseguirsi di interi periodi storici connotati da una marcata “preferenza” per l’una o per l’altra componente umana, ciò che rileva con certezza è che di tanto in tanto si sono affermate le posizioni agli estremi di questo dualismo, passando per altri momenti in cui la società ha potuto godere di loro un mix più equilibrato.
Sicuramente, nell’ultimo secolo le migliorate condizioni di vita, il benessere economico, la stabilità sociale e l’assenza di conflitti distruttivi su larga scala, hanno permesso un progressivo aumento delle attenzioni verso il “piacere”, individuale e collettivo, e con questo anche un incremento dell’offerta di occasioni di soddisfare questo “bisogno” fisiologico. In alcune fasi della nostra storia recente, abbiamo sentito etichettare la nostra società come “edonistica”, volta cioè, in una accezione abbastanza restrittiva e parziale del termine, alla continua ricerca di un piacere (fisico) come bene supremo da raggiungere. Lo stesso consumismo sfrenato è stato collegato ad un atteggiamento quasi “bulimico” legato alla ricerca del piacere, fugace e subito dopo di nuovo carente, in un “corto circuito” tale da giustificare la sensazione di non potersi appagare in modo pieno e duraturo.
Il piacere, come il dolore, altro non sono che sensazioni attivate da stimoli fisici (meccanici e chimici) e capaci di generare, a loro volta, aspettative emozionali (attesa fremente o preoccupazione e paura) che possono trasformarsi esse stesse in piacere o dolore (godimento o sofferenza) pure in assenza degli stimoli fisici originari. Il nostro cervello (per qualcuno, solo sede del raziocinio) è capace quindi di astrarre perfino gli stimoli materiali al punto che il solo loro ricordo, in forma di esperienza sensoriale, può produrre, fisicamente e chimicamente, il necessario per provare emozioni positive o negative, farci godere o farci soffrire. Chi conosce l’essere umano, queste cose (e molte altre ancora) le sa molto bene. E può perfino usarle per generare volontariamente alcune reazioni nelle persone, con un fine o uno scopo preciso e determinato.
Potremmo fare molti esempi, alcuni classici (lo studio degli spot pubblicitari finalizzati a vendere prodotti o ancora di più, utili a creare letteralmente dei bisogni nei consumatori) altri più attuali (l’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa per incutere timore nella popolazione al fine di veicolarne il comportamento in un momento difficile come una pandemia). In ogni caso, ciò su cui si fa leva, “nel bene e nel male”, è sul pathos degli esseri umani. Anzi, mentre si manipola il pathos, ritorcendolo contro le persone stesse, si opera per disinnescare il raziocinio per evitare che questo corra in soccorso dell’intelligenza emotiva delle persone con meccanismi di sicurezza quale, ad esempio, la dissonanza cognitiva. Veniamo invitati ad accogliere tutto attraverso il nostro pathos, o meglio ancora attraverso i nostri sensi, prima di arrivare alla ragione o bypassando proprio l’intelligenza razionale e logica. Un pathos, che potremmo tradurre come “intensità emotiva”, allenato in molti modi e per molti molti anni e oggi oggetto di un vero e proprio assedio. La passionalità, la pienezza sensoriale delle emozioni, la sofferenza, l’impeto e quant’altro possa accomunarsi al termine greco pathos diventano così il “cavallo di Troia” piazzato, con abilità e astuzia, dentro di noi, pronto a farci capitolare in qualunque momento.
Tutti noi sappiamo quanto in questi ultimi 26 mesi di esistenza siamo stati bombardati da tali e tanti messaggi diretti al nostro cervello primitivo e, quindi, più istintivo e sensoriale, al punto di averci resi quasi irriconoscibili (a noi stessi e gli uni con gli altri) dal punto di vista della precedente intelligenza e razionalità. Tutti, indistintamente, siamo stati colpiti dove più eravamo pronti ad accogliere con la massima intensità il messaggio emozionale che, purtroppo, questa volta non era di piacere o di gioia e felicità, ma di paura, sofferenza, dolore, preoccupazione, per se stessi e per i nostri cari. Come reagire o come difendersi da questi meccanismi? Abbiamo qualche possibilità di schermarci almeno per sopravvivere?
Forse, la parola magica è una parola che nel tempo ha acquisito un significato negativo ma che, originariamente, veniva utilizzata in modo neutro e comunque funzionale al raggiungimento di uno stato di vera serenità e felicità: APATIA. Essere apatici, nel nostro vocabolario di uso comune, corrisponde ad essere indolenti, insensibili, non reattivi agli stimoli e alla realtà esterna. Si traduce, spesso, anche in atteggiamenti di immobilismo, di inattività. In ogni caso, dare dell’apatico a qualcuno, oggi come oggi, non corrisponde ad un complimento. Di contro, l’apatia per i filosofi dello stoicismo ellenico corrispondeva ad uno stato ottimale di contemplazione della realtà, dal momento che l’indipendenza, l’indifferenza e l’imperturbabilità rispetto alle passioni e alle emozioni umane, permettevano di cogliere la piena realizzazione delle cose, secondo un disegno di bene superiore nel quale questi filosofi credevano. L’assenza di emozioni (a-pathos, senza passione), e di aspettative, e l’utilizzo della ragione per escludere o limitare le distorsioni create dal piacere o dalle emozioni, rappresentavano la ricetta degli stoici per avvicinarsi ad una forma di vera felicità umana.
Ecco che allora, almeno in senso “classico”, dovremmo imparare ad essere “veramente” apatici, dovremmo provare a scrollarci di dosso quelle cose che abbiamo imparato e allenato in tanti anni di “belle parole”, in primis l’esatto opposto dell’apatia, ossia l’empatia (en-pathos, dentro la passione, il sentimento), che di questi tempi sembra fatta apposta per aggiungere sofferenza (altrui) a quella che abbiamo dovuto vivere direttamente e personalmente. Apatia e recupero delle nostre capacità razionali di discernimento dovrebbero, così, fungere da faro, o almeno da fiaccola, nell’oscurità che ci circonda.
Sandro Scarpitti