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“Mare profumo di mare”… e di spensieratezza!

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“Mare profumo di mare”… e di spensieratezza!

Ve lo ricordate il telefilm “Love Boat”? Quella serie ambientata su una nave da crociera dove si intrecciavano i destini e le storie di tante persone e dove in ogni viaggio (ma proprio per ogni singola tratta) l’amore trionfava sempre (ma proprio sempre) e il lieto fine era d’obbligo? E voi, vi ricordate per caso di una puntata, anche una sola, nella quale il tempo non fosse splendido e il mare calmo e piatto come un lago ghiacciato? Io, giuro, proprio non ne ho memoria e, avendone viste di puntate di quel telefilm, vuol dire che, semmai quella nave abbia mai affrontato una tempesta o una mareggiata, io quel giorno non ero davanti alla tv.

Storie a lieto fine, amore a profusione, belle persone animate sempre da belle intenzioni, dialoghi (da copione, ovviamente) pieni di valori positivi e, come detto, un sole che spaccava le pietre per 365 giorni all’anno (mettiamo pure 364, ma non di meno). Se non pioveva o non c’era un freddo polare da far cascare i lobi delle orecchie, nessuno gridava all’allarme “Climate change”, bensì i fortunati passeggeri della “Pacific Princess” (questo il nome della “nave dell’amore”) si godevano il sole e un bagnetto rinfrescante sul ponte della nave senza “menarsela” troppo con le preoccupazioni della vita quotidiana, rigorosamente lasciate a terra, prima di imbarcarsi. Tra l’altro, a proposito di imbarcarsi, non ricordo neanche di aver mai saputo (o mai capito) da dove partissero e che giro facessero questi amabili vacanzieri. Forse, però, è solo la mia memoria a fare cilecca, vista l’età che avanza inesorabile.

Ad ogni modo, pensando oggi a quel telefilm emblematico, lo “rivedo”, mentalmente e sotto molti punti di vista, come lo specchio di quei tempi. E, forse, non solo come una trasposizione in celluloide di una realtà più positiva, leggera e ottimistica della realtà dell’epoca, ma anche come una vera e propria forma di “propaganda” di uno stile di vita, di alcuni valori, di certi bisogni da soddisfare e desideri da realizzare. Questa parola sempre più presente nei discorsi del nostro tempo, propaganda, qualcuno (troppo pochi e troppo poco ascoltati) l’ha sempre associata alle produzioni hollywoodiane e, più in generale, alle finalità dell’intrattenimento cinematografico. Forse, però, finché ha schiacciato su “note” piacevoli, abbiamo fatto fatica a percepirla come (o volutamente abbiamo “rifiutato” che fosse) una forma di manipolazione della percezione del reale. Un artificio che potrebbe essere a disposizione di obiettivi e mittenti (o mandanti?) diversi: dall’azienda che vuole conquistare il mercato mondiale di un certo prodotto, alla super potenza mondiale che vuole “raccontare” quanto si stia bene sotto il proprio dominio, tanto per fare un paio di esempi a caso.

Nell’eterno dilemma dell’uovo e della gallina, perciò, si fa fatica a discernere quanto la propaganda anticipi e, quindi, determini in concreto una certa realtà (felice/drammatica, superficiale/profonda, spensierata/terrorizzata) ovvero quanto di “documento storico” sia presente nelle cineteche di tutto il mondo, tanto da poter considerare anche una serie leggera come “Love boat” quale oggetto di adeguata considerazione, ad esempio, in un’analisi sociale e sociologica dei nostri anni ’80. Non a caso, forse, gli anni di quel Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti, guarda caso figlio proprio del cinema americano. 

Cassandro Ripitt

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