Riflettere sul concetto di “immedesimazione intenzionale” mi fa tornare indietro nel tempo. Una delle più coinvolgenti lezioni all’università alle quali abbia mai assistito riguardava proprio l’empatia, descritta come una “categoria pedagogica”, una base di partenza dell’essere umano, una spinta verso la socialità più sana, la creatività, l’uguaglianza tra le persone. In un’epoca connotata dal progresso scientifico, può sembrare anacronistico parlare di empatia e cercare di risalire alle radici umane della socialità. Ma le competenze scientifiche o tecnologiche possono rivelarsi inadeguate per la conoscenza del rapporto dell’individuo con se stesso e con gli altri, per definire la persona nella sua interezza e profondità. L’empatia precede e motiva la cura per l’altro.
L’empatia, qualità dalla quale non possiamo prescindere, e senza cui la comunità umana non ha ragione di esistere: se questi sono i presupposti per una “società evoluta”, non possiamo considerare la società nella quale viviamo oggi, una società inclusiva, se non siamo capaci di riconoscere nell’altra persona una parte di noi stessi, come appartenenti ad una sola comunità. L’empatia, ovvero “sentire-come-sente-l’altro”, è alla base di tutte le forme di contatto con cui ci accostiamo ad un’altra persona e riconosciamo anche l’individualità di un’altra persona “sei importante per me, ho stima di te e riconosco, rispetto e condivido il tuo sentimento”. La virtù empatica si esercita accostandosi all’arte perché sviluppa l’immaginazione, ma anche l’immedesimazione con i pensieri ed i sentimenti di un’altra persona è un esercizio virtuoso.
L’empatia “vera e propria” implica l’acquisto della capacità di condivisione emotiva e diviene “matura” compartecipando al mondo personale dell’altro, considerandolo proprio come un altro. Non si tratta tanto di una dote spontanea: esige una maturazione di tutte le attività psichiche dell’uomo. Maturazione intellettuale, maturazione prosociale, competenze relazionali e comunicative, che ci dispongono ad una frequentazione abituale del mondo personale dell’altro. L’empatia è sguardo e parola. Sguardo non intrusivo, che diviene capace di vedere il volto dell’altro, grazie alla comprensione emozionale empatica. L’empatia, essendo comportamento “connaturale” all’essere umano, produce comunicazione: le parole dette e ascoltate, interpretate e ricomprese, formano un universo di senso condiviso per chi partecipa alla relazione umana.
Comportamenti “di tipo empatico”, come il contagio emotivo, sono presenti già nel neonato (il bambino piange in risposta al pianto di un altro). Ma nella forma più matura, l’empatia implica un notevole impegno cognitivo, indirizzato a recepire lo schema di riferimento interiore dell’altro, ed una componente affettiva che induce a sperimentare reazioni emotive in seguito all’osservazione delle esperienze altrui. Dunque è molto più di una emozione, è un sentimento intelligente, un atto d’amore ricco di intelligenza. Ci mettiamo “nei panni dell’altro” per confermare un’immagine nota di noi stessi, oppure siamo disponibili alla sorpresa, allo spiazzamento?
Le ricerche sociologiche indicano che le “microcomunità” empatiche, ovvero piccoli gruppi quali la famiglia, la vita di coppia, parentele elettive, luoghi segnati da un clima emotivamente caldo, funzionano al meglio per dare senso alla vita.
Se vogliamo vivere veramente in un mondo partecipativo, l’empatia è il mezzo con cui possiamo comprendere e costruire una realtà condivisa e creare “la civiltà dell’empatia” (Jeremy Rifkin).
Dott. Francesco Ruiz