Quando l’economia reale si inginocchia alla finanza

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Per chi crede fortemente nell’economia reale, nel valore del fare, del produrre, del generare ricchezza diffusa, tanto meglio se accompagnato da modalità “etiche” e sociali, è veramente difficile accettare e, forse anche, comprendere un mondo nel quale la speculazione sembra farla sempre di più da padrona. Un mondo costellato da novelli Paperon de’ Paperoni, alle prese con sconfinati depositi di denaro che viene accumulato per se stesso, e per il potere che rappresenta, e non per generare a sua volta altra ricchezza diffusa, non per far “girare l’economia” in senso tradizionale, e nel quale non è nemmeno possibile tuffarsi per fare i corroboranti “bagnetti” di disneyana memoria, visto che ormai le monete d’oro hanno lasciato il posto a freddi numeri sullo schermo di un pc.

Una volta la speculazione era “una” delle componenti dell’economia e rappresentava un aspetto fisiologico del sistema, soprattutto se relegata agli ambienti finanziari e valutari, al momento degli “scambi” e dei flussi monetari nei mercati nazionali e, ancor di più, internazionali. A suo modo, aveva anche una sua funzione, regolatrice e complementare, rispetto alle altre dinamiche di mercato e, volendo, questo tipo di “speculazione” manteneva ancora un’identità “neutra”, come parola e come concetto. Non assumeva, come oggi invece accade, una connotazione, percepita e reale, assolutamente negativa, a volte nefasta e addirittura spregevole.

La speculazione, quella “brutta”, quella che può rappresentare un “cancro” nei sistemi economici di tutti i Paesi del mondo, è quella che va a braccetto con un’asimmetria informativa basata non più sulle conoscenze, lo studio, l’impegno e un lavoro certosino di analisi dei fatti e delle dinamiche sociali, politiche ed economiche, bensì sul “possesso” dell’informazione, delle sue fonti, dei suoi mezzi di diffusione. Una speculazione spregevole che si auto alimenta e che sovrasta l’economia reale, comprimendola, umiliandola e spogliandola del suo valore originario, di essere cioè rappresentativa del rapporto tra bisogni delle persone (e delle imprese) e risorse adeguate a soddisfarli, dell’annoso problema dell’ottimale allocazione di risorse limitate per far fronte alle necessità ricorrenti e impellenti degli individui.

Il limite terribile verso il quale a me sembra si stia tendendo in questa epoca storica di enormi difficoltà e di enormi cambiamenti (direi quasi stravolgimenti), è un mondo, un sistema economico, al di fuori dei modelli conosciuti nella letteratura accademica della materia, che va ben oltre le logiche di dominio dei mercati ad opera, ad esempio, di uno o pochi soggetti “forti” (monopolio / oligopolio) o di uno Stato che dirige e decide per ogni aspetto della produzione e dello scambio di beni e servizi e dell’allocazione della ricchezza tra i diversi soggetti dell’economia (modelli economici di stampo socialista/comunista). Siamo di fronte ad un sistema che riconosce, almeno implicitamente, la “supremazia” della finanza, della moneta, sull’economia reale, diretto da chi questa finanza la domina, da chi, attraverso le partecipazioni azionarie ai grandi “mostri” multinazionali, diretta o indiretta (attraverso “mostruose” società di gestione di fondi internazionali di investimento), e la potenza esorbitante del denaro utilizzato “in ogni modo possibile”, riesce ad interferire a qualunque livello, incluso quello politico, per volgere a proprio esclusivo o prevalente vantaggio qualunque decisione, utile a generare nuovo denaro, che sarà nuovo potere, reinvestito nel mantenimento, in perpetuo, del potere stesso. Un castello di carte, quello del denaro, certo. Ma con fondamenta in cemento armato e tanta tanta “colla” usata, ogni giorno, per tenerle insieme, ben salde.

Giampiero Ledda

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