Il cibo, nella vita, nella cultura e nell’economia umana, ha assunto e aggiunto, lungo il corso della storia, significati nuovi e diversi. È stato, e resta, mezzo di soddisfacimento di un bisogno primario essenziale, nutrirsi, ma si è evoluto in funzione del “grado di necessità” e del concetto stesso di “sopravvivenza”, data praticamente per scontata in buona parte del globo terrestre e, nella fattispecie, nel nostro Bel Paese.
Gli estremi di questo percorso storico-culturale del cibo sono ben riassunti nella contrapposizione “mangiare per vivere o vivere per mangiare?”, anche se, personalmente, ritengo la questione posta in maniera errata. Certo, a seconda del contesto nella quale si vorrebbe utilizzare la frase in quei termini, questa potrebbe aver “senso compiuto”, soprattutto se opportunamente declinata (e/o strumentalizzata) per rafforzare un punto di vista e portare la classica “acqua” al mulino delle proprie ragioni. Chi potrebbe, infatti, contestare che i problemi di salute legati agli stili alimentari sbagliati (abuso di “junk food”, per dirla all’inglese, o anche solo quantitativo tout court) siano conseguenti anche ad un “approccio al cibo” che non rispetta le reali esigenze del nostro corpo? Mangiare come atto slegato completamente dal bisogno di nutrirsi, o peggio guidato da ragioni psicologiche tendenzialmente patologiche, come potrebbe non intendersi deleterio e, in fondo, perfino autodistruttivo?
D’altro canto, è altrettanto un grave spreco considerare e trattare il cibo solo per il suo apporto alle nostre necessità organiche, perché se fosse giusto così, probabilmente non avremmo determinati effetti anche sulla nostra psiche, collegati al piacere, al desiderio, al gusto, alla vera e propria “passione per” qualcosa di specifico, individualmente o collettivamente considerato speciale. Sarebbe un vero peccato non valorizzare il nostro rapporto con il cibo, ogni volta che non c’è la stretta necessità di raggiungere la soglia minima di sopravvivenza, mettendolo a disposizione di bisogni diversi, comunque connaturati al nostro essere umani e, anche, all’essere “animali sociali”. Condividere, insomma, ciò che mangiamo e non solo, come accade nelle economie di sussistenza, in termini di “redistribuzione” della risorsa cibo al fine di alimentare opportunamente il maggior numero di individui e garantire, così, forza sufficiente e benessere all’interno di quella società.
Il “convivium” latino è, probabilmente, la summa delle grandiose possibilità che il cibo ci offre, quando mangiamo e, soprattutto, quando mangiamo in compagnia. Nella sua più immediata traduzione, stiamo parlando di un banchetto, di una festa. L’immagine che queste parole ci offrono è talmente chiara che non serve aggiungere neppure una precisazione. Quello che invece può essere più interessante è l’etimologia di parole come convivio, convivialità e simili, tutte traduzioni dirette di “convivium” e tutte derivanti da cum vivere, vivere insieme. In pratica, la stessa radice di “convivenza” ma limitata… alla tavola! Il cibo che è ancora una volta strumento e mezzo di sostegno e di vita, ma anche catalizzatore di vivacità e di vicinanza. Di aggregazione, di condivisione di un’esperienza, di scambio di opinioni, di pareri, di gusti e di emozioni. Superamento di barriere, abbattimento di muri. Ritualità che fanno tradizione, cultura, società. Modalità di stare intorno allo stesso tavolo che arrivano a caratterizzano un popolo, una nazione. Un perno sul quale costruire e ricostruire relazioni, appianare dissidi, strutturare alleanze, ideare progetti. Un momento, prezioso, per raccontarsi storie e aneddoti del passato, per vivere il momento, il qui e ora, con la giusta leggerezza e, magari, per guardare avanti nel tempo con quella fiducia e con quel sorriso che solo un banchetto luculliano e un bicchiere di ottimo vino riescono a far rifiorire, ancora una volta, dentro ciascuno di noi.
Giampiero Ledda