In Vino… Prosperitas!

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Il vino e la viticoltura fanno parte della nostra civiltà da quando di civiltà, nella nostra penisola, si può parlare. Il vino, in particolare, è parte integrante non solo della nostra tavola e di ogni occasione di socialità conviviale, ma è per noi italiani cultura, letteratura, arte, economia, poesia; è famiglia, è storia, è radici, nostalgia, memoria olfattiva; è nonni, è antico e attuale, è gioia e fatica, è orgoglio nazionale, tradizione e innovazione.  È tanto e tanto ancora di più. È perfino “amore”. E ci appartiene. Una sequenza scritta nel nostro DNA che ci differenzia, anche per quella, dagli altri abitanti della Terra.

La viticoltura, probabilmente giunta qui da noi qualche bel secolo “avanti Cristo” con i navigatori greci, è stata esaltata dal nostro territorio, in tutta la sua variegata composizione ed eterogeneità climatica, ed è diventata metodo, cura, selezione, valorizzazione. Grazie al lavoro compiuto nell’epoca della Roma caput mundi, poi, la coltivazione dell’uva, e la produzione di una bevanda talmente divina da meritarsi, in Grecia come a Roma, un dio tutto proprio (rispettivamente Dioniso e il nostrano Bacco), è stata portata in tutta Europa, anche là dove oggi i produttori e gli esportatori locali sfidano gli imprenditori italiani nei più grandi (e appetitosi) mercati del mondo, Stati Uniti in primis.

Insieme alla vite e ai suoi figli, la primogenita “uva” e il secondo, preziosissimo rampollo, “vino”, i Romani prima e i popoli italici poi, hanno esportato conoscenza, sapere, tecnica e tecnologia. Il tutto mescolato al piacere, alla consapevolezza, al significato e al valore culturale, emozionale, sociale e, quindi, economico, di questo straordinario e affascinante comparto dell’agricoltura. Perfino nel nostro Medioevo, additato da sempre come un lungo periodo di “buio” per la civiltà e per il suo progredire, la viticoltura e la vinificazione sono state al centro dell’organizzazione e della produzione agricola del tempo. Il vino stesso, utilizzato nei riti religiosi della Chiesa Cattolica, aveva sempre più acquisito anche una certa sacralità, portando i monasteri dell’epoca, i laboriosi benedettini in particolare, a studiare le viti, sperimentare nuovi uvaggi e combinazioni, per miscele innovative di vini bianchi e rossi.

Per moltissimo tempo, il vino è stato questo e i vigneti hanno popolato e disegnato geometrie straordinarie nella nostra penisola, da nord a sud, senza nessuna eccezione. Per anni, soprattutto fino all’avvento dell’Unione Europea, vigneti e vino sono stati sostenuti, in termini di sviluppo economico, da governi, leggi e finanziamenti specifici, riconoscendo a queste attività un valore irrinunciabile per la prosperità dell’economia italiana. Come è accaduto per altri settori delle eccellenze italiane, però, qualcosa è cambiato nel tempo, soprattutto negli ultimi 25-30 anni. Quote di produzione, regole di scambio, limiti alla commercializzazione e incentivi economici per espiantare, letteralmente, parte dei vigneti già esistenti sul nostro territorio, hanno indotto ad una inevitabile “revisione” del quadro programmatico e degli investimenti in questo comparto. Qualcosa di buono ne è sicuramente arrivato sul fronte della qualità, unico spazio di manovra per chi ha deciso di riposizionarsi nell’ambito del nuovo contesto produttivo e commerciale, ma per il resto, ci sono stati molti contraccolpi negativi, dall’occupazione nel settore alla svalutazione dei terreni, per arrivare all’abbandono degli stessi da parte di imprenditori delusi e sviliti nel loro impegno quotidiano.

Recentemente, sono arrivati nuovi “attacchi”, o così sono stati considerati dagli operatori del settore viti-vinicolo, da parte di Stati membri dell’UE alle prese con la sindrome del primo della classe (“leggi” Irlanda con la sua proposta di scrivere sulle etichette del vino, come della birra e dei superalcolici, avvertenze in tutto simili a quelle previste, dalla normativa europea, sulle sigarette e i tabacchi) o da parte di scienziati che, sull’onda della presunta supremazia del loro sapere su qualunque altra forma di conoscenza, sono passati a disputare dalla virologia e dall’epidemiologia, all’esito del Grande Fratello o alla geopolitica delle crisi internazionali, passando attraverso l’accusa al vino circa la sua cancerogenicità, senza alcun distinguo e senza nemmeno prendere in considerazione decenni, per non dire secoli, di letteratura, quella sì “scientifica”, sui benefici di questa bevanda che la natura ci offre da millenni. Un prodotto che, se ben dosato e ben utilizzato, individualmente o economicamente a livello nazionale, può rappresentare ancora una grande fonte di prosperità.

Giampiero Ledda

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