
Quando si parla di “bio”, nel mondo dell’agro-alimentare, sempre di più non si può prescindere da fare opportune e necessarie specifiche prima di avventurarsi in qualunque discorso sull’argomento. Dalla comparsa dei primi approcci all’agricoltura biologica (e parliamo di quasi 70 anni fa!) ad oggi, infatti, “bio” è stato abbreviazione e/o sinonimo di molte, troppe cose, degenerando talvolta in mera etichetta da usare e abusare a piacimento, per aumentare la percezione del valore reale dei propri prodotti e, di conseguenza, aumentarne l’appetibilità commerciale e il fatturato.
Certamente, le normative europee e nazionali sul “biologico” hanno fornito dettagliate modalità, procedure, regole e percorsi per provare a garantire, in primis i consumatori, sull’affidabilità dei fornitori di prodotti biologici, prodotti per i quali è indubbio il crescente interesse (anche economico), il valore assoluto rispetto al binomio “salute e ambiente” e l’allineamento con il concetto di sostenibilità nel senso più ampio del termine. Ciò non di meno, ci sono molte (e spinose) questioni aperte sul mondo del “bio”, che coinvolgono piani diversi e, apparentemente, distanti. Non solo in relazione agli aspetti “tecnici” e neanche esclusivamente rispetto ai problemi legati alle certificazioni e alla capacità di controllare, in concreto, le filiere produttive definite “biologiche”.
Oggi la nuova sfida per il “bio” è, a mio modesto parere, l’armonia. Ci sono state troppe “note stonate” nella storia di questo comparto della produzione agricola e dell’industria alimentare, del commercio e della distribuzione dei prodotti biologici. E se prima hanno pesato speculazioni, scandali, o anche soltanto norme “lasche”, verifiche inconsistenti e poco affidabili e atteggiamenti commerciali poco coerenti con l’etica del biologico, oggi come oggi i limiti per una definitiva ed incontestabile affermazione del “bio” nei consumi delle famiglie italiane riguardano due aspetti principali.
Una prima tematica da considerare è di tipo socio-economico. Se “bio” è buono, è bene, è salute, allora “bio” non può essere per pochi. Vuoi per i costi di produzione, vuoi per la legge della domanda e dell’offerta, i prezzi al consumo sono spesso notevolmente più alti degli “altri prodotti” e, pur nella consapevolezza che “mangiare meno e meglio” potrebbe essere la chiave della longevità e della salute, la progressiva riduzione del potere d’acquisto delle famiglie e l’aumento della forbice tra ricchi e poveri non creano sicuramente il terreno più fertile nel quale far crescere l’attenzione, e quindi il mercato, del “bio”. Come si può armonizzare una progressiva conversione di una sempre maggiore fetta della produzione agricola ai disciplinari biologici, se in questa fase (che ormai è già più che decennale) nessuno riesce a fare un passo verso un pubblico che, più che disattento alla tematica, è in difficoltà materiale nel prenderla concretamente in considerazione?
L’altra questione è di tipo culturale e si traduce in una sorta di incongruenza tra il senso dell’agricoltura e della produzione “bio” con il più ampio tema del rispetto dell’ambiente e del “creato”. Una scarsa vocazione, ancora in una fetta troppo ampia della popolazione, per il rispetto del mondo che ci circonda, dei suoi spazi, dei suoi tempi, dei suoi cicli. Troppe note stonate negli atteggiamenti individuali e di mercato, con una diffusa incoerenza tra stili di vita poco sostenibili e ricerca di benessere, anche attraverso il cibo sano e naturale. Come si può, infatti, abbracciare pienamente la filosofia “bio”, e quindi favorirne lo sviluppo e la diffusione, quando ci si reca al supermercato specializzato in prodotti biologici a soli 500 metri da casa, in automobile, mentre ci facciamo dettare la lista della spesa tramite cellulare dal partner che sta in una casa rinfrescata da un climatizzatore con motore esterno?
Serve armonia. Dentro ciascuno di noi, prima di tutto.
Giampiero Ledda