In natura, pochi sono gentleman. Forse, non sbaglieremmo se dicessimo che non ne esistono affatto. Di per sé, non è una condizione di partenza, una caratteristica insita, congenita, dell’essere umano. Infatti, quando parliamo di comportamento (che è ciò che rileva al fine di definire un gentleman come tale) parliamo di “modi”. Non parliamo solamente di “cosa” faccia o non faccia una persona, ma soprattutto parliamo del “come”. I modi e le maniere (le famose “buone maniere”) sono sovrastrutture sociali che si sono integrate, progressivamente, nelle relazioni umane, a partire da un gruppo di individui che hanno potuto iniziare ad agire sul “come”, probabilmente non dovendosi preoccupare più di tanto del “cosa”. Più chiaramente, quando parliamo di gentleman e di buone maniere, il nostro pensiero vola subito alla nobiltà inglese, alle signorie medievali o addirittura alle gens romane, alle famiglie altolocate, di tanti secoli fa. Parliamo di persone che non dovevano dedicarsi alle fatiche più logoranti e agli sforzi più intensi; persone che non dovevano, più di tanto, neanche preoccuparsi di come soddisfare i loro bisogni primari, vista la possibilità di comprare con le loro ricchezze ciò di cui abbisognavano, così come di “utilizzare” altri uomini e donne per svolgere le più disparate incombenze in loro vece.
E proprio questi “altri” uomini e donne rappresentavano quel contraltare necessario ad evidenziare la “differenza di maniere”. Esseri considerati più vicini alle bestie, per istinti, modi e necessità basilari, e per questo tenuti in condizioni di inferiorità e di sfruttamento, che agli uomini. I gentiluomini e le gentildonne, soprattutto delle epoche più vicine al nostro tempo, si consideravano una sorta di “salto evolutivo” e, per questo, non vedevano il resto della popolazione come asservito o ingiustamente sopraffatto, bensì come si guarda un cavallo o un bue intenti a trainare un carro o un aratro: elementi funzionali alla loro esistenza, al loro benessere, alla loro stessa condizione di “nobili”, altolocati, gentil-persone.
Nella nostra società, che non smette di offrirci continui spunti per una visione entropica del prossimo futuro, stiamo vivendo un momento di grande ambiguità. Da una parte, vediamo spinte e forzature, concettualmente giuste, per ampliare sempre di più le condizioni di accesso ad una effettiva uguaglianza, soprattutto in termini di dignità, di possibilità, di tenore di vita; dall’altra, però, si evidenzia l’aumento del divario tra i potenti e i ricchi del mondo, in ogni parte della Terra, e il resto della popolazione. La sensazione è che ci sia una volontà di livellare, schiacciando verso il basso, un vasto gruppo di persone che, negli ultimi due secoli, si era innalzato leggermente nella “scala sociale” (quanto meno quella misurata a suon di soldi e di benessere economico), scremando via via il gruppo dei sedicenti aristocratici e ricostituendo in modo esplicito una vera e propria “neo-nobiltà”. Se così fosse, è probabile che questa spinta verso il basso, più che generare nuovi gentleman provenienti dai margini del mondo e della società, finirà per trasformare in beastman coloro che avranno molto da perdere da questo nuovo ordine sociale.
Uno spiraglio di luce? Sicuramente, non saranno i “modi” o le “maniere” con le quali i decisori e i potenti della Terra determineranno i cambiamenti che hanno in mente di apportare al nostro mondo. Semmai, solo la presenza di persone “gentili” di animo e capaci di vera e genuina empatia, meglio ancora se in grado di incidere sulle regole del cambiamento e di dare ascolto a tutte le parti in gioco (non solo agli interessi di pochi), potrà determinare uno scenario futuro a tinte meno fosche.
Giampiero Ledda