Uno studio condotto in Germania nel 2008 scioglie i nodi legati a questo interrogativo
Con la cultura non si mangia. Quante volte vi sarà capitato di sentire questa frase? Tante, troppe. Pronunciata nel 2010 dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e ripresa infelicemente a distanza di quattro anni dall’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, è ormai diventata una delle frasi tipiche che si usano quando finiscono gli argomenti in una conversazione.
Eppure sappiamo benissimo che oggi non è propriamente così. Ditelo ad un artista come Damien Hirst, annoverato nella Rich List (la lista dei ricchi redatta ogni anno dal Sunday Times) tra gli uomini più ricchi della Gran Bretagna. Ditelo ad Andy Warhol che ha raggiunto il successo quand’era ancora in vita.
E allora perché c’è la credenza che con l’arte si possa morire poveri? Perché il passato così ci ha insegnato. Prendete Amedeo Modigliani, scomparso nei primi anni 20 del ‘900 dopo aver trascorso la sua vita tra alcool, donne e uso di stupefacenti. Prendete Van Gogh che, mantenuto dal fratello, ha sperperato tutto in assenzio, il suo liquore preferito presente in molte delle sue opere, e che da vivo ha venduto un solo dipinto. O ancora Caravaggio che, se non condusse un’esistenza agiata, viste le importanti committenze che otteneva, fu solo per il carattere indocile che lo distinse da sempre e che lo portò a morire in povertà.
Da qui la convinzione che chi pratichi il mestiere artistico sia destinato a morire in povertà. Ma perché? Da cosa deriva l’incomprensione delle opere di questi artisti quando erano ancora in vita e la successiva esaltazione una volta scomparsi?
Uno studio condotto nel 2008 da Heinrich W. Unsprung e Christian Wierman, due ricercatori del Dipartimento di Economia dell’Università di Costanza in Germania, indaga quale sia l’effetto della morte sul mercato degli artisti analizzando 436.308 transazioni d’arte estratte dalla raccolta “Art Sale Index” (Indice delle vendite di opere d’Arte che esamina i dipinti, le sculture e le miniature vendute all’asta tra il 1980 e il 2005) di Richard Hislop, tenendo conto di vari fattori come la qualità effettiva delle opere, la loro rarità, la reputazione degli artisti e la loro età.
Da questo studio è emerso che per gli artisti che muoiono giovani, l’effetto-morte è dominato dal fattore “reputazione”, mentre per quelli che muoiono in età più tarda, è la “rarità” il fattore dominante.
Per quanto riguarda la qualità, dalle analisi condotte dai due ricercatori emerge come l’effetto-morte sia molto più evidente per i grandi maestri, ad esempio i già citati Van Gogh, Modigliani e Caravaggio, che non per quelli meno conosciuti.
I ricercatori sottolineano, inoltre, l’importanza della visibilità mediatica affinché l’apprezzamento per un artista continui a svilupparsi anche dopo la sua morte.
Ed è proprio qui entrano in campo le logiche di mercato e la concezione dell’arte come status symbol.
Roberta Conforte