Quando una visione si scontra con una previsione
Nella mia vita, ormai giunta al di là dello scollinamento della “mezz’età”, ho incontrato e conosciuto molti maestri, diversi professori, perfino qualche “eminente professorone” ma pochi, pochissimi, insegnanti. Per molti, “insegnante” non è altro che un sinonimo degli altri termini adatti ad indicare chi, per lo più seduto in cattedra, ricopre il ruolo di docente per gruppi di giovani virgulti umani. Per me, “colui che insegna” ha in sé una peculiarità che lo distingue, e lo eleva, rispetto ai suoi “colleghi” maestri, professori, formatori e affini: l’intento. Non un’intenzione qualsiasi, non un obiettivo eterodiretto o finalizzato al di fuori degli interessi del discente, e tantomeno la realizzazione di sé attraverso i propri studenti, bensì la genuina e ferma volontà di raggiungere l’ambizioso e, a tratti, folle obiettivo di arricchire, concimare, far crescere e rendere autonome le giovani menti con le quali entra in relazione nella veste, appunto, di insegnante.
La rarità delle apparizioni di un siffatto essere è tale da renderlo una figura quasi mitologica. Incontrare un insegnante, però, è esattamente ciò che può cambiarti la vita, evidentemente in meglio. Soprattutto, il valore di questo incontro andrà oltre il tempo della scuola, supererà i confini della materia di insegnamento per irradiarsi, virtuosamente, in ogni ambito, alimentando passione, curiosità, interesse e ogni altro ingrediente prezioso e indispensabile per mantenere sempre viva la sete di conoscenza. Di ogni conoscenza.
Coach umanistico “ante litteram”, l’insegnante contribuisce, con adeguata discrezione e minima interferenza esogena, alla scoperta dei talenti del discente e ne permette lo sviluppo, con il miglior grado di autonomia possibile. Leader nel senso più squisitamente letterale di “guida”, che accompagna e cammina accanto, “personalizza” il proprio intervento nella piena coscienza della singolarità di ciascuno, sia umanamente sia dal punto di vista dei processi e dei meccanismi di apprendimento. E come “guida”, si preoccupa della propria coerenza tra parole proferite e azioni compiute, consapevole del valore e della forza dell’esempio.
In un mondo realmente interessato al bene dei propri giovani e al futuro delle generazioni che verranno, non dovrebbe esserci alcun dubbio sulla via da perseguire nella loro formazione, preparazione ed educazione. Per avere persone laboriose, empatiche, proattive, impegnate, connesse con gli altri (nel senso concreto e reale del termine, e non solo digitale o virtuale), sensibili verso tutto e tutti, capaci di “dare” almeno quanto di ricevere e di apportare un pezzetto di sé in ogni manifestazione delle loro esistenze, consapevoli che vivere in pace è “la” via anche semplicemente perché in un clima collaborativo e cooperativo, nel lungo periodo, si ottengono risultati migliori che giocando da soli e per sé stessi.
In pratica, però, con la scusa che siamo “in troppi” a questo mondo, che è difficile conciliare i programmi ministeriali con le peculiarità di ogni studente, che ci sono pressioni per incanalare i nostri giovani verso un tipo di conoscenza o verso una necessità produttiva contingente, che “insegnare” è molto più faticoso e laborioso che indottrinare, ammaestrare, rimpinzare di nozioni che serviranno, poi, a chi finanzia, tra le altre cose, anche il “sistema scuola”, si staglia all’orizzonte tutt’altro tipo di “istruzione” riservata ai giovani di oggi e del prossimo futuro. Una scuola finalizzata alla creazione di un bagaglio comune, culturale e tecnico, minimo indispensabile per “servire il sistema”, con ridotta complessità (le intelligenze artificiali e i loro algoritmi lavoreranno, per le cose complicate, al posto dei nostri cervelli) e pressoché nulla capacità di discernimento, di senso critico, di valorizzazione delle intelligenze possedute. Che non sia mai che a farsi troppe domande e a cercare “inutili” risposte, qualcuno non pensi di sottrarsi alla propria (?) vocazione per il “bene comune”.
Cassandro Ripitt