Il sapere, inteso come l’insieme delle conoscenze possedute da ciascuno così come dalla totalità, dalla collettività degli esseri umani, è talmente fondamentale nello sviluppo della vita e nella sua stessa evoluzione che, da sempre, è strumento e simbolo di “potere”. Condividere il sapere, nella maniera più ampia e diffusa possibile, è cosa abbastanza recente nella storia del mondo e, comunque, è sempre stata ed è tuttora una scelta politica “come” e “quanto” diffondere di tutte le conoscenze acquisite ed accumulate dalla razza umana nell’arco degli ultimi millenni.
Senza eccedere in una digressione storica relativa alla scolarizzazione delle persone e, quindi, alla suddetta diffusione del sapere tra tutte le fasce della popolazione, possiamo affermare che, da un certo punto in poi, si è ritenuto più utile far conoscere e condividere parte di questo immenso patrimonio (e, quindi, di questo enorme potere) con la massa anziché continuare a mantenerla nella più profonda ignoranza (e dipendenza), buona solo ad eseguire ordini semplici e diretti e lavori prettamente materiali e manuali.
Il modo stesso di “fare scuola”, di ammaestrare, le persone, a partire dall’infanzia, è cambiato nel tempo in funzione di specifici obiettivi politici. In questo senso, il dibattito sulle finalità e le modalità di insegnare e di istruire gli scolari è continuo e si riaccende, periodicamente, non solo alla ripartenza di ogni anno scolastico, ma soprattutto in momenti congiunturali caratterizzati da cambiamenti o difficoltà importanti, siano esse in ambito sociale, economico o politico. Si mettono a confronto veri e propri “modelli”, applicati in Stati diversi del mondo, si paragonano risultati diretti e ricadute positive sulla vita e sull’economia di questi Paesi, si discute su ciò che sarebbe meglio fare per una crescita, vera e piena, delle nuove generazioni attraverso quel lungo periodo che i giovani devono dedicare all’apprendimento. Si scontrano, così, visioni diverse, a tratti estreme, tra chi ritiene i ragazzi come delle brocche vuote da riempire e chi invece punterebbe tutto sulle competenze trasversali e sullo sviluppo delle intelligenze di cui, ciascuno, ha una certa dotazione alla nascita. Tra chi ritiene che prima di tutto bisogna sapere, e affidarsi a chi “ha saputo” prima di lui, e chi immagina un mondo fatto di persone che, sopra ogni altra cosa, “sappiano pensare” e riescano, quindi, a trasformare ogni germe di conoscenza in un nuovo frutto dell’ingegno e della potentissima capacità di elaborazione del cervello umano.
Una riflessione sulla situazione italiana, in questo ambito, potrebbe nascere dall’analisi del termine scelto nel nostro Paese per definire il mondo della scuola e dell’insegnamento: “l’istruzione”. Secondo il dizionario Treccani, il sostantivo istruzione è, in primis, “l’attività, l’opera svolta per istruire attraverso l’insegnamento (o anche, in qualche caso, solo mediante l’addestramento), e il risultato o frutto di tale attività”. E ancora è “l’opera di ammaestramento dei giovani che si compie in modo sistematico nella scuola”. Mi colpisce, però, e mi inquieta quel che c’è scritto in merito all’istruzione “programmata”, come può considerarsi esattamente l’istruzione scolastica: “METODO d’insegnamento che consiste nel fare apprendere all’allievo le NOZIONI VOLUTE attraverso una SEQUENZA PREORDINATA, che passa dalle informazioni semplici alla conoscenza di nozioni più elaborate, utilizzando i vari sussidi didattici”. Se è vero che le parole sono importanti, da queste poche righe si potrebbero comprendere molti dei problemi della scuola italiana e molti dei (voluti) limiti posti alla conoscenza, alla capacità di pensiero critico e allo sviluppo armonico, sistemico e libero di quel meraviglioso patrimonio evolutivo che è il cervello umano.
Sandro Scarpitti