La valorizzazione delle differenze come base di ogni identità possibile
Una delle principali criticità che ogni sacrosanta battaglia civile, sociale, sindacale o politica, deve affrontare è rappresentata dalle strumentalizzazioni. La differenza fondamentale tra una strumentalizzazione e l’utilizzo genuino di uno slogan, di un programma o di un’istanza qualunque, sta nell’obiettivo. E la difficoltà nel distinguere l’una dall’altro è insita nel fatto che, spesso, l’obiettivo è celato o celabile, peggio ancora si può vestire o travestire di un abito, di un colore e di un’ideologia, in una sorta di gara “a chi arriva primo” per legittimarsi come “paladini” dal cuore puro e baluardi integerrimi dei richiedenti diritti. Ebbene, chi ha un interesse genuino nel sostenere una simile battaglia deve riuscire, con tutte le difficoltà del caso, a “smarcarsi” dai millantatori e dagli opportunisti che solitamente hanno vita breve e, soprattutto, oltre a non portare da nessuna parte, solitamente finiscono per rendere gli sforzi genuini a loro volta meno credibili o vani. Diventa, perciò, necessario passare sempre al vaglio coloro che si professano nostri “amici” affinché la smania di “ingrossare le file” del movimento “pro” questo o “pro” quello non generi un effetto boomerang nel medio-lungo periodo.
Nello specifico, se un intero movimento di persone che, per fare massa critica (giustamente), ha ampliato sempre di più la propria sigla, cerca disperatamente di uscire dalla logica degli stereotipi e delle etichette, deve a sua volta fare di tutto per evitare qualsiasi forma di “appiattimento” e semplificazione. Sia all’interno del proprio movimento (L non è G, T non è Q, e via discorrendo), sia anche verso l’esterno, dove il mondo è pieno di “amici” pronti a marciare insieme e a fare promesse di ogni sorta, purché… Ecco qua l’inghippo! C’è un “purché”? Incredibile! In un mondo per nulla governato dalla logica del “do ut des”, vuoi vedere che proprio su temi così delicati qualcuno non cerchi, direttamente o indirettamente, una contropartita? Che siano voti alle prossime elezioni (con promesse che, poi, “passata la festa gabbato lo santo”!) che siano convergenze su alcune ideologie, aziende, marchi, prodotti e, chi più ha fantasia, più ne metta, poco cambia.
Pensiamo soltanto al globalismo, inteso come forte (a tratti violenta) spinta alla globalizzazione estrema commerciale ed economica. Secondo alcune “scuole di pensiero” c’è tutto l’interesse ad omologare il consumatore medio, “sfrondando” il più possibile le differenze rispetto alla nazionalità, alla cultura, all’età, allo status sociale e, pure, allo stesso “genere”. Ecco, attenzione agli “amici”, in questo campo. Perché se “avvicinare” o provare ad annullare le differenze tra i generi, in termini di gusti, prodotti, referenze, assortimenti, può essere una “trovata” molto profittevole per il marketing e il commercio mondiale, il punto di incontro, e di appiattimento, non può essere una “terra di mezzo” che, forzatamente, qualcuno vuole vedere nel vasto e variegato mondo LGBTQIA+. Primo, perché si rischia immediatamente di diventare il “parafulmini” del dissenso di chi non accetta la logica del globalismo per molte, valide e condivisibili ragioni. Poi, e soprattutto, perché se il punto di partenza delle rivendicazioni del movimento LGBTQIA+ è fondamentalmente il riconoscimento dell’unicità di ognuno, senza paradigmi imposti né parametri basati su concetti morali quali “giusto” e “sbagliato”, non ci si può far strumentalizzare, usare e identificare con l’idea di cercare la perfetta uguaglianza di ognuno con ciascuno. È una lotta per l’affermazione di (nuove) identità, non per togliere al mondo il valore sconfinato delle differenze.
Nemo