È l’ottobre del 1608 e un certo Hans Lipperhey, un ottico di Middelburg, in Olanda, deposita il brevetto per l’invenzione di uno strano marchingegno, che sembra magico, perché è in grado di avvicinare oggetti che sono lontani. La sua richiesta viene respinta, perché quell’aggeggio senza nome è già di pubblico dominio.
Estate 1609, è trascorso un anno. In Italia un uomo prende quel giocattolo carnevalesco di pubblico dominio, e lo adegua alle sue esigenze di studioso. Lo modifica, con l’aggiunta di una serie di lenti, e alla fine di agosto raggiunge un livello di otto ingrandimenti. L’uomo è il pisano Galileo Galilei, di anni quarantacinque, che presenta al Senato di Venezia il “cannone occhiale”, ribattezzato poco dopo con il nome più appropriato di “telescopio”, un nuovo strumento scientifico in grado di vedere molto lontano. A ottobre, Galileo lo potenzia, fino a 20 ingrandimenti, lo punta verso l’alto e può finalmente sondare i misteri della volta celeste, spingendosi dove l’uomo sarebbe arrivato alcuni secoli più tardi. L’occhio è diretto verso le stelle, alla ricerca febbrile di qualcosa, qualsiasi cosa, in grado di riportarlo nella sua Toscana da Padova, nella Repubblica di Venezia, dove attualmente vive e lavora. Per farlo sa che deve solleticare l’interesse per le curiosità naturali dell’adolescente e futuro regnante Cosimo II de’ Medici. Gli ha già donato un magnete, ma il tentativo è fallito, il ragazzo non pare particolarmente interessato.
Autunno inoltrato. Galileo sta osservando la Luna e si accorge che la sua superficie è “rugosa”, sono presenti montagne e crateri. Essa, quindi, non è una sfera perfetta, composta da materia celeste incorruttibile, come creduto fino a quel momento. Non solo, il telescopio gli permette di notare che la Terra proietta la sua ombra sul nostro satellite. Comprende le fasi lunari, capisce come è correlato il movimento tra i due astri celesti, inizia a rendersi conto che la concezione della cosmologia aristotelica-tolemaica è sempre più sbagliata.
Gli appunti sui fogli di lavoro si moltiplicano, Galileo pensa di condividere con la comunità il suo lavoro, si affretta a mettere insieme le sue scoperte, ma gli eventi prendono un’impennata vertiginosa.
Gennaio 1610. Galileo sposta gli occhi dalla Luna e punta il dispositivo verso Giove. Si stupisce di vedere tre piccole stelle in linea retta accanto al pianeta. Stupore che aumenta pochi giorni dopo: le stelle hanno modificato la loro posizione e sono state raggiunte da una quarta compagna.
In poco più di due settimane Galileo si convince di avere scoperto quattro piccoli pianeti che accompagnano il moto di Giove. Sa che la notizia potrà meravigliare il mondo scientifico, ma ancor di più il giovane Cosimo. Lo scienziato pisano scrive di fretta, passa dall’italiano al latino, la lingua della comunità scientifica. Quei pianeti appena scoperti li vuole chiamare Stelle Cosmicane (poi modificate in Medicee), in onore del rampollo del Granducato di Toscana. Ma deve sbrigarsi, prima che qualcun altro possa precederlo, pubblicandone i risultati. Il titolo provvisorio a cui pensa è l’Astronomicus Nuncius.
È il 31 gennaio 1610 e Galileo è a Venezia, per incontrare lo stampatore Tommaso Baglioni. Sono giorni concitati, fatti di bozze, di corrieri che corrono ogni sabato tra Padova e Firenze per consegnare nelle mani del segretario del granduca di Stato, Belsario Vinta, l’anteprima del lavoro di ricerca. La matrice in legno con il frontespizio è già stata intagliata, vengono lasciati degli spazi bianchi, in mezzo al testo, dove saranno collocate le cinque illustrazioni lunari incise in rame, e che saranno stampate successivamente, con altro torchio. Il tempo stringe e in poco meno di due mesi, il 13 marzo 1610, finalmente viene pubblicato, con il titolo corretto e definitivo, il Sidereus Nuncius. È un esile libro in quarto, stampato in 550 esemplari, tramite il quale Galileo Galilei annuncia ai colleghi della Repubblica delle Lettere di scoperte inaudite, tali da sconvolgere e da mettere in dubbio l’intera visione dell’universo. Seppur all’apparenza sia un trattatello astronomico, il libro diventa la preziosa testimonianza delle capacità dell’essere umano di spingersi oltre i confini, con la sua curiosità e un desiderio sempre vivo di esplorazione, traghettandolo un passo in avanti nel futuro. Il Sidereus Nuncius diventa una pietra miliare, entrando di diritto tra i libri più preziosi e ricercati nel mondo dell’antiquariato librario.
Passano alcuni secoli, il mondo nel frattempo fa passi da gigante, lo sguardo però è sempre rivolto in alto. L’universo è ancora un mistero, ma più raggiungibile. L’invenzione di Galileo si trasforma in potenti telescopi, strumentazioni scientifiche talmente complesse da scorgere altre galassie. Gli uomini si avventurano nello spazio, animati da una crescente curiosità di svelare nuovi segreti del cosmo, la stessa, probabilmente, che animò Galileo.
Altri uomini, altre situazioni, altri tempi. È il 26 marzo 2007. Il Sidereus Nuncius torna a far parlar di sé. In Italia, all’Università di Padova, viene organizzata una conferenza stampa per annunciare una nuova incredibile scoperta. Nessun nuovo pianeta, la novità riguarda il ritrovamento di una sconosciuta prima edizione del Sidereus Nuncius. A presentarla sono due eminenti voci in campo universitario: lo storico dell’arte tedesco Horst Bredekamp, della Humboldt Universität di Berlino, e lo storico William R. Shea, titolare della Cattedra galileana dell’Università di Padova. È il caso di dire che si tratta di un esemplare più unico che raro. Il libro non solo reca la firma autografa del suo autore, ma anche, al posto delle cinque incisioni in rame delle lune, la presenza di cinque disegni acquarellati dallo stesso Galilei. Ma dove si è nascosto per tutto questo tempo, dal 1610 fino agli anni Duemila? La stessa domanda se la pone anche Owen Gingerich, professore emerito di Astronomia e Storia della Scienza presso la Harvard University.
Un passo indietro.
È il 24 giugno 2005. Alla porta dello studio di Harvard del professore Gingerich bussano due librai antiquari: uno è il newyorchese Richard Lan (acquirente), l’altro è l’italiano Marino Massimo De Caro (venditore). Sono venuti a sottoporre alla sua attenzione, di astronomo e di bibliofilo, il ritrovamento in Argentina di un Sidereus Nuncius rarissimo, acquarellato dallo stesso Galileo. Sul mercato, sostiene Lan, varrebbe dieci milioni di dollari. Gingerich lo maneggia, si interroga sulla sua provenienza, constata che sì, è una rarità bibliografica. Eppure qualcosa non gli torna. Continua a pensarci, anche due anni dopo, quando sente della conferenza stampa, quando si chiacchiera del Sidereus Nuncius M-L (sono le iniziali dei due librai che lo hanno acquistato: Seyla Martian e Richard Lan), nonostante il grande dispendio di finanziamenti e l’appoggio di due istituzioni rispettabili come il Max-Planck Institut e la Fondazione Alexandre Humboldt, per verificare l’autenticità del trattatello. Il professore di Harvard non è convinto per un motivo: gli acquarelli sono troppo accurati, si convince che, scientificamente, solo un uomo del nostro tempo avrebbe potuto disegnare in maniera tanto precisa le ombre lunari. Gingerich matura il sospetto che si possa trattare di un falso, a regola d’arte, tanto da aver ingannato anche gli esperti più preparati. Con un atteggiamento investigativo alla Sherlock Holmes, il professore decide di ripercorrere gli studi lunari di Galileo, giorno per giorno, minuto per minuto, mettendo in discussione l’autenticità del Sidereus Nuncius M-L. È il 2009 quando pubblica un lungo articolo dal titolo The Curious Case of the M-L Sidereus Nuncius, in cui dimostra perché, secondo lui, quella copia è un falso.
È il 2011. Massimo De Caro sta svaligiando la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, di cui nel frattempo è diventato direttore. Un furto consistente di libri antichi che lo porterà all’arresto l’anno successivo. Nel frattempo lo storico Nick Wilding, intento a lavorare a una recensione sul Sidereus Nuncius, da pubblicare sulla rivista Galileo’s O, si accorge che qualcosa non torna: il frontespizio presenta un’incongruenza. Impiegherà circa un anno per accertarsi che il volume è interamente falso (la legatura proviene da un altro volume, la riproduzione delle pagine si scopre essere un prestigioso lavoro in Photoshop).
Giugno 2012, Massimo De Caro viene arrestato e poco dopo Wilding pubblica online la sua confutazione sull’autenticità del Sidereus Nuncius M-L. La comunità scientifica riconosce immediatamente la copia come falsa.
A prescindere dalle implicazioni legali che ne sono conseguite, e della tremenda scossa assestata al mondo dei librai antiquari che ne ha fatto vacillare la credibilità, bisogna dire che Massimo De Caro era un profondo conoscitore ed estimatore delle opere di Galileo (di cui peraltro si sono scoperti altri falsi Sidereus, più qualche altra opera). La ribattezzata “New York Copy” del Sidereus Nuncius M-L rimane anch’essa una testimonianza del genio creativo e dell’aspirazione dell’uomo di sfidare i suoi limiti. Pur trattandosi di un falso, non si può non ammirare la maestria e la perizia messa in pratica da De Caro e constatare il fatto che, in qualche modo anche questa vicenda, che ho voluto raccontarvi, è entrata a far parte dei libri di storia.
Chissà se Galileo avrebbe apprezzato la profonda ammirazione che De Caro nutriva per lui, la stessa ammirazione che lo scienziato del Seicento rivolgeva al cielo, infinito e ricco di misteri.
Concludo con un pensiero del filosofo tedesco Immanuel Kant che mi ha sempre affascinato: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.» Non so, ma qui dentro mi piace leggerci le storie di Galileo e di De Caro.
Per chi volesse approfondire ulteriormente la vicenda del Sidereus Nuncius M-L, consiglio la recente, e prima, traduzione in italiano del saggio del professor Owen Gingerich, Il curioso caso del Sidereus Nuncius M-L (Biblohaus, 2019), a cura di Massimo Gatta, con prefazione di Sergio Luzzatto.
Marco Bosio