C’erano una volta gli ospizi per i vecchi, strutture destinate in origine ad accogliere e a dare ricovero a persone in età avanzata, prive di assistenza familiare e di mezzi di sussistenza. Finire all’ospizio, in questo senso, era una sorta di tragedia, personale e familiare, sia per le condizioni che avevano condotto l’anziano ad essere accolto in queste strutture, sia perché a quei tempi anche il personale e la gestione di questi centri non brillava certo di umanità e professionalità come, più recentemente e salvo rari e clamorosi casi di cronaca, siamo abituati a vedere oggi.
Come per altre strutture, lavori, mestieri e ruoli, l’ospizio ha prima provato a cambiare nome (casa di riposo o ricovero per anziani), ma da solo, questo, non lo ha reso subito un posto migliore. Un passo alla volta, continuando sempre in parallelo a cambiare denominazione, da residence, a “pensionato”, fino a giungere alle attuali Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), l’accento del servizio si è spostato dal semplice “ospitare”, ad un più ampio accogliere e curare gli anziani, soprattutto quelli non autosufficienti o con bisogni di assistenza medica interdisciplinare.
Oltre che a formare nuove figure professionali e ad integrarle nelle varie strutture, però, ci si è dovuti confrontare anche con nuovi e crescenti bisogni degli anziani (e delle loro famiglie in difficoltà, soprattutto in termini di tempo disponibile): bisogni di assistenza, compagnia, socialità, tempo libero, turismo… in sostanza e in breve, di voglia di vivere, spesso coperta soltanto da tante rughe ma ancora presente e pulsante. Da un mix di esigenze sempre più variegato e ampio, variabile a seconda delle fasce di età e dello stato di salute ma anche delle esperienze, della cultura, delle disponibilità economiche di questi anziani, hanno preso forma diverse “offerte” in termini di servizi a questi riservati. Sono sorte persino quelle che qualcuno ha definito le “città d’argento”, luoghi capaci di fornire servizi di ogni genere e di accogliere e prendersi cura dei propri “cittadini” in tutto e per tutto, gestiti da imprese sociali fortemente impegnate nel settore elder care and assistance con progetti innovativi e coinvolgenti.
Insomma, l’evoluzione della gestione degli anziani, dopo la scomparsa (o quasi) del modello familiare che, fino alla metà del ventesimo secolo “internalizzava” la cura dei nonni e dei bisnonni, tenendoli “operativi” all’intero del nucleo con adeguate mansioni a loro volta di cura dei bambini e della casa, ha seguito l’evoluzione lessicale delle parole, dal termine (e dal concetto) “curare” queste persone care, passando poi dal “prendersene cura” (in senso più ampio e meno legato alla sola salute fisica) fino ad arrivare a costruire una dimensione “a misura di anziano” e delle sue esigenze, senza minimalismi o preconcetti limiti, in un vero e proprio spazio ritagliato e cucito addosso sartorialmente a ciascuno di loro.
Per quest’ultima fase, è richiesta una abbondante dose di una medicina portentosa, capace di guarire ferite, placare animi e inibire sofferenze e dolori: l’empatia. Non solo quella che, professionalmente, potrebbero fornire operatori molto ben preparati, formati e allenati a “mettersi nei panni” dei loro assistiti e di mostrarsi sensibili e comprensivi nei loro confronti. Ci vuole anche, o soprattutto, una empatia esperienziale, quella che arriva non dalla capacità di immedesimarsi basata sull’immaginazione, bensì quella che deriva direttamente dal proprio percorso di vita. Anziani che si prendono cura di altri anziani. Guariti e riabilitati che aiutano, e convivono, si divertono, giocano, chiacchierano, con altri “coscritti” che stanno affrontando un periodo di difficoltà, di malattia o di recupero da quella maledetta “testa del femore” che sembra essere fatta apposta per creare problemi appena giunti ad una certa età. Non si tratta di avere strutture, residence, villaggi o città d’argento con operatori anziani quanto gli ospiti. Si tratta di creare opportunità affinché ci siano infermieri e personale sanitario “professionalmente empatici” che curino gli anziani, operatori e animatori “naturalmente empatici” (e se fossero pure simpatici, non guasterebbe per nulla) che si prendano cura del benessere totale dei loro ospiti e infine, tanti altri anziani “esperienzialmente empatici” con i quali condividere le gioie, poche o tante che la vita potrà ancora riservare, ma comunque in modo pieno e soddisfacente. Sarebbe l’uovo di colombo, pur con tutte le difficoltà che potrebbero manifestarsi concretamente nella realizzazione di un progetto del genere. Varrebbe la pena, però, di pensarci e di provarci perché i momenti di serenità e di gioia, in qualunque caso, sono un toccasana per l’animo umano e risulterebbero utili a sostegno di qualunque terapia. Un elisir, se non di eterna giovinezza, almeno di piacevole vecchiaia.
Alvise Brugnaro