Uno dei concetti più interessanti e versatili che si impara a padroneggiare grazie agli studi in ambito economico è quello di trade off. Letteralmente traducibile come “scambio”, il trade off indica una relazione funzionale tra due variabili tale per cui al crescere dell’una assistiamo al decrescere dell’altra ovvero, più genericamente, non risulta praticabile l’ottimizzazione contemporanea di entrambe le variabili risultando incompatibile una crescita o una decrescita contestuale tra di loro. Ci si trova, in pratica, a dover scegliere accettando uno “scambio”, appunto, tra due cose desiderabili, perdendo qualcosa per guadagnare, in cambio, qualcos’altro.
Sono davvero innumerevoli gli esempi in campo economico che potrebbero farsi per essere più esplicativi, ma diversi ne abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. Riguardano il nostro tempo (libero vs lavorativo), le nostre risorse (consumo vs risparmio), la nostra vita (libertà vs sicurezza) e ci mettono in difficoltà, se non addirittura in crisi, ponendoci sistematicamente di fronte ad una o più scelte, decisioni. E se è vero che etimologicamente “decidere” equivale a “tagliare via”, diventa subito comprensibile quanto, di fronte ad una rinuncia, ci possiamo sentire in crisi, affaticati e spesso anche dubbiosi o spauriti.
Se poi l’accoppiata “rinuncia/beneficio” si riferisce a due stati desiderabili, a due cose o situazioni entrambe positive, se solo potessero coesistere, allora la cosa si fa più difficile, aumentando i punti di vista sul trade off in questione, le preferenze (meglio un po’ più di questo e un po’ meno di quello, e viceversa) e, infine, le possibili decisioni. La politica si occupa spesso di gestire trade off. E, molto probabilmente, la politica, dovendo mediare sempre tra interessi coesistenti e contrapposti, è propriamente connotata da questa prerogativa, cosa che porta tanto potere quanta responsabilità (solo che per questa seconda, spesso, i politici hanno seri problemi di allergia).
Di fronte, quindi, alla dichiarazione dell’Unione Europea di voler agevolare e promuovere un progressivo (e neanche tanto) passaggio dalla classica economia lineare ad una economia circolare, più compatibile con il green deal e con gli obiettivi di riduzione delle emissioni nocive fissata per il 2030, e ancor di più con il traguardo della neutralità climatica fissato per il 2050, la prima cosa che mi viene in mente è trade off. Ormai, sta diventando quasi un’ossessione quella degli aut-aut, delle scelte obbligate e antitetiche, degli estremi a confronto, in una rappresentazione costante, sociale e politica, dell’eterna lotta tra il bene e il male. E così, volutamente e sempre più prepotentemente, rappresentata da chi si occupa di informazione e di approfondimento, di notizie e di cultura.
Ecco: nella gestione dei trade off l’unica cosa che non si dovrebbe mai fare è semplificare e minimizzare la questione della scelta. Infatti, essendo una scelta, e lo è per davvero e fino in fondo, non dovrebbe essere facile per nessuno, nemmeno per chi, in prima battuta, potrebbe sembrare più favorito dalla decisione presa. Nei veri trade off, infatti, ogni scelta può anche riproporsi come un boomerang, in un momento successivo, per chiunque tra gli stakeholders (o portatori/titolare di interessi in gioco), motivo in più per procedere con cautela, e con tutti approfondimenti del caso, nella scelta finale.
Or dunque, dopo oltre 50 anni di escalation nelle abitudini di acquisto e di consumo delle persone di mezzo mondo, trascinati e talvolta teleguidati dal marketing e dalla pubblicità più infida e strumentale per carpire bisogni latenti o addirittura crearne di inesistenti, fondando di conseguenza tutto il mondo del lavoro e della generazione dei redditi degli stessi consumatori sui “fasti” di un’economia lineare, strafottente e irriguardosa rispetto ai temi tanto cari agli ambientalisti, oggi qualcuno vorrebbe dire, di colpo, “stop”. Fermi tutti! Abbiamo scherzato, abbiamo tirato troppo la corda e, oggi, solo da oggi, dobbiamo tagliare, ridurre, riusare, riparare, riciclare e “mettere a giro”, il più a lungo possibile, quello che è già stato prodotto e, magari, anche già venduto almeno una volta. Tutto molto bello se, per ogni rifiuto in meno, in un’ottica di trade off, non ci trovassimo di fronte ad un prodotto in meno. Meno imballaggi, significa meno inquinamento, ma anche meno lavoro per le fabbriche di imballaggi. Prolungare il ciclo di vita di un elettrodomestico, di un’automobile o di una qualsiasi attrezzatura farà lavorare di più manutentori, riparatori e meccanici, ma taglierà posti di lavoro, e tanti, tra gli operai del settore industriale. Consumare meno energia, bruciare meno petrolio, smettere di scavare il carbone, ogni cosa è e sarà un maledetto trade off che, complessivamente, ci porterà al più clamoroso dei trade off che potremmo affrontare: vivere o sopravvivere? Perché, paradossalmente, da quando noi esseri umani abbiamo cominciato a risalire la nostra “piramide dei bisogni”, cominciando a dare sempre più per scontati i nostri bisogni primari e occupandoci attivamente e razionalmente solo di riconoscimento sociale, stima, autostima e autorealizzazione, abbiamo cominciato a disdegnare la mera sopravvivenza, distinguendola dalla “vita”, fatta di tutto quello che, mente, anima e corpo, ci permettono potenzialmente di sentire e provare nel corso della nostra esistenza. Il trade off non è, quindi, tra vivere e morire, perché, per come ci dicono che si stanno mettendo le cose, sarà il nostro stesso vivere che ci porterà a morire (lo farà il clima, lo farà l’oceano innalzandosi, lo faranno i nostri stessi rifiuti soffocandoci); di contro, la riduzione dei nostri standard di vita e delle nostre pretese, ci porteranno a considerare la nostra vita come semplice sopravvivenza e, per quello che abbiamo imparato ad apprezzare negli ultimi secoli, ci staremo stretti e, forse, ci sentiremo anche, e lo stesso, un po’ morti.
Ed ecco il punto di ogni trade off: la scelta, lo scambio, la decisione. In una situazione del genere, non si potrà decidere “ognuno per sé”, o quanto meno ci saranno spazi molto ridotti di autodeterminazione, per cui di fronte ad un “allarme estinzione” come quello che da decenni molti scienziati e climatologi continuano a lanciare, i grandi decisori non potranno che contrarre la vita a beneficio della sopravvivenza. Il problema, però, così come è stato già anche osservato nei due anni di pandemia (che casualità, queste prove generali arrivate così a ridosso di altri trade off importanti) è che la natura umana non sarà facilmente addomesticabile e non sarà quindi semplice comprimere tutti gli spazi (vitali, economici, emozionali, sociali, ecc.) che si sono dilatati negli ultimi secoli di umanità. Quella stessa natura, imprevedibile, creativa, curiosa, desiderosa di andare sempre “un passo oltre”, che ci ha portato fino a qui, oggi, a doverci interrogare sul nostro futuro.
Sandro Scarpitti