Qual è il vero senso della vita, non è forse l’illusione della felicità?
Mi fermo a questo primo interrogativo, che racchiude un quesito che ci perseguiterà per tutto il tempo della nostra vita: la ricerca del significato della nostra esistenza.
Perché noi, in fondo, nasciamo, ci adoperiamo per realizzarci, intraprendiamo, ma tutto questo lo portiamo avanti senza mai perdere di vista una consapevolezza: che arriverà un momento che tutto questo dovremo lasciarlo, dovremo ritornare all’essenziale così come, senza particolari elementi aggiuntivi siamo venuti al mondo.
O forse è questo il grande mistero che ci attanaglia: quello di cercare al di fuori di noi, quello che è al nostro interno, ma verso il quale abbiamo il timore che, portandolo allo scoperto, potremmo destabilizzarci.
In fondo ci fa paura entrare in dialogo con la nostra vera essenza, perché potrebbe delineare qualcosa che, se realizzata, se resa manifesta, scompaginerebbe la vita preordinata e tranquilla che ci siamo costruiti.
Allora, in maniera ripetitiva, insistiamo con i soliti riti, circondandoci delle stesse consuetudini, che non ci appagano, ma ci acquietano.
Tutta la nostra vita viene allora programmata, viene conformata a modelli che non ci appartengono, che illusoriamente ci rassicurano, ma tutto questo ha un tempo limitato, soddisfa un bisogno che all’apparenza, ci stabilizza.
In realtà stiamo cercando di ingannare la nostra vera essenza, perché ci spaventa uscire allo scoperto.
Il nostro intento è quello di essere autentici, ma questo implica fare “tabula rasa” di tanti meccanismi illusori che sono serviti proprio per eludere questo nostro inconscio bisogno di autenticità.
Essere felici è allora sorprendersi: vivere, accettando lo scompaginamento della vita, superando l’ansia di vedere che in un sol colpo, tutto quello che avevamo collezionato, catalogato, immagazzinato può scomparire.
Per fare spazio alla percezione del “mondo interno”, che ci indirizza verso il “nostro demone”, cioè nella constatazione che lì, a portata di mano, c’è il nostro mondo che non aspetta altro che di ricevere le nostre attenzioni e le nostre cure.
Del resto Gesù cosa disse ai suoi apostoli? “Lasciate le vostre reti perché farò di voi, dei pescatori di uomini” e Francesco d’Assisi, per aderire al senso del suo esistere, non si sottrasse al rito della “svestizione” per indossare un saio.
Come possiamo rilevare, ogni mutamento, quello vero, presuppone una perdita, quindi una rinuncia, un lasciare cadere qualcosa che ha completato il suo ciclo naturale e non può che essere posto alle nostre spalle.
Ogni nostro cambiamento, in fondo, altro non è che uno “svelamento”: cioè un togliere le tante sovrastrutture che ci avvolgono, che foderano il nostro essere al punto da soffocarlo e snaturarlo.
Questo è, in definitiva, ciò che va sotto il nome di “coraggio” che poi, esaminando questo termine, rappresenta la composizione di due parole: “cuore” e “agio” che, collegate insieme” equivalgono a “mettere il cuore a proprio agio”.
Come arrivare a questa percezione del mondo interno? Fermandoci ad ascoltarci. Permettendo ad una nostra risonanza emotiva di manifestarsi e di essere “illuminata dai nostri riflettori”.
Ecco allora che uscirà allo scoperto la nostra “eu-daimonia”, cioè la percezione del Sé che scaturisce proprio da una naturale “opera introspettiva” che porterà alla ribalta qualcosa che ci sorprenderà positivamente e, quindi, ci renderà felici.
Ernesto Albanello