Viaggiare alla velocità dei sogni

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Si potrebbe trascorrere un’intera vita “andando per mare”. Basterebbe salpare da qualunque porto del mondo, prendere una qualunque direzione e, sfruttando la continuità tra un oceano e l’altro, continuare a viaggiare e viaggiare ancora, perfino senza una meta che non sia il viaggio stesso. Da qualche secolo, questa possibilità pressoché sconfinata è nella consapevolezza di chiunque si cimenti nella navigazione, una certezza che è libertà assoluta per il marinaio di lungo corso quanto fonte di preoccupazione e paura per il neofita del timone. Non è sempre stato così, però. Il senso di infinito o di illimitato che possiamo associare al mare è una delle “conquiste” umane. Se ci pensiamo bene, finché noi abitanti del bacino del mediterraneo abbiamo creduto che il mondo finisse alle “Colonne d’Ercole”, andar per mare era “solo” attraversare un enorme specchio d’acqua per muoversi da una sponda all’altra, per scoprire, conquistare, commerciare o semplicemente viaggiare riducendo le distanze tra un Paese e l’altro, tra popoli e culture diverse. Il mare, quindi, visto come facilitatore, trait d’union tra luoghi e persone, continuità dello spazio e del tempo nello svolgersi delle epoche umane.

Finché è sopravvissuta la visione arcaica di un “mondo” piatto e limitato, poi, pur ampliandosi gli orizzonti dell’umanità, non è cambiato, in profondità, l’approccio al mare e, quindi, anche la visione collegata alla navigazione “stagnante”, tanto delle navi quanto dei pensieri nella testa delle persone. Ci sono volute rivoluzioni, evoluzioni e, soprattutto, la temerarietà di grandi uomini del passato, per arrivare a coniugare i limiti con l’infinito, la realtà con le potenzialità, i rischi con le opportunità. Così, nel corso della storia più recente del mondo, l’uomo ha sperimentato che l’attraversamento delle acque costituisce una metafora della sua stessa intera esistenza, una ricerca del proprio destino, da affrontare con coraggio e rispetto, con timore reverenziale ma mai con atteggiamento di sottomissione, mantenendo viva l’attenzione nei giorni buoni e di calma e non disperando mai, arrendendosi, alle tempeste più violente. Perché un mare piatto può celare, oltre l’orizzonte, un uragano in arrivo, dal quale possiamo scampare solo se viriamo per tempo o se ci prepariamo adeguatamente ad affrontarlo; così, nel pieno di una tempesta con onde alte più di quanto ci sembra di poter sopportare, deve sostenerci la consapevolezza che nessuna bufera dura per sempre e il nostro destino dipenderà solo da come abbiamo costruito la nostra barca per affrontare ogni condizione del mare e da quanto saremo in grado di resistere e di opporci all’idea di ineluttabilità che inghiotte chi da essa si fa sopraffare.

Quanto ha contato il mare per noi italiani, dall’alba dei tempi ai nostri giorni? Non solo dal punto di vista del sostentamento, degli scambi, dell’economia, ma proprio per quello che siamo oggi, geneticamente e intellettivamente? Se solo pensiamo alla miscellanea di genti, di popoli, la ricchezza che ognuno di noi porta con sé in un solo filamento di DNA, quanta conoscenza filetica abbiamo accumulato grazie ai nostri 8.000 km di coste, 8.000 km di abbraccio con il mare più caldo e più accogliente del mondo? Così, ogni tanto, la sera, alzo gli occhi al cielo e, guardando quel blu scuro punteggiato di stelle, mi chiedo se lo spazio al di sopra delle nostre teste diventerà il nostro prossimo mare, o se non lo sia già stato senza che ne abbiamo memoria. E al solo pensarci, le mente si apre un po’ di più e i pensieri iniziano a viaggiare, senza una meta precisa, ad una velocità che solo i sogni riescono a raggiungere.

Giampiero Ledda

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