
Stavolta per me è dura. Vorrei lanciarmi “a tutta birra” in un editoriale costruttivo, positivo e propositivo, con tutto l’entusiasmo di cui sono capace e che il tema del mese, l’energia, è in grado di accendere in me. Per convinzioni personali, per stimoli e interessi professionali, per progetti e collaborazioni attivate, sarebbe per me “naturale” lasciar correre pensieri e dita sulla tastiera in un flusso di idee e visioni rappresentative di un futuro straordinario, nel quale le fonti di energia rinnovabili hanno trasformato il mondo e la vita delle persone, in meglio. I trasporti, la viabilità e la qualità dell’aria che respiriamo; l’industria e l’agricoltura; il bilancio degli Stati e quello delle famiglie; l’ambiente, gli animali, il mare, i cieli; per ogni cosa, l’energia di cui necessitiamo, potrebbe essere sostenibile e pressoché illimitata. E questa semplice ipotesi dovrebbe scatenare una corsa agli investimenti, alla caccia alle idee migliori, ai processi e alle fonti più efficienti, attivando innumerevoli circoli virtuosi con obiettivi elevati e tali da garantire un risultato “win-win”, una “partita” cioè nella quale vincono tutti i partecipanti.
Invece… invece, sono tristemente frenato in questo mio impulso spontaneo, nella mia consueta “analisi delle opportunità” che potrebbero nascere da un simile scenario, perché anche sull’energia, oggi più che mai, i grandi della Terra, i decisori, i governanti e molti grandi attori dell’economia mondiale, si stanno giocando la carta della “strumentalizzazione”. L’energia è strumentalizzata, biecamente, nella politica e, soprattutto, nella corsa alle posizioni di comando (elezioni, dinamiche interne agli organismi internazionali, politici e para politici). È usata per imporre sanzioni, salvo poi essere riutilizzata, a mo’ di boomerang, per mettere in ginocchio chi da quell’energia dipende, economicamente prima di tutto. Ancor di più, i grandi dibattiti sull’energia, combustibili fossili / nucleare, fonti rinnovabili sì / fonti rinnovabili no, sono riesumati periodicamente per farne temporaneamente delle “bandiere” da sventolare sotto il naso degli attivisti e degli elettori per tornare, poi, nei cassetti, ben piegate e pronte ad essere utilizzate nuovamente al bisogno.
Senza parlare poi della parzialità e della faziosità con la quale, solitamente, chi ha grande visibilità politica ed economica affronta il dibattito sull’energia. Soluzioni temporanee e insoddisfacenti, che spostano nel tempo le conseguenze negative di una scelta rispetto ad un’altra (smaltimento scorie, riciclaggio pannelli solari, impatto ambientale degli impianti eolici, ecc.); dibattiti vuoti e inconcludenti che nascono da occasioni nuove per ribadire vecchie (e già bocciate) proposte; progetti ambiziosi per il futuro, pressati da date di scadenza e “point of no return” apocalittici calcolati e identificati non si sa bene “come” e “da chi”.
Del resto, tante persone di sono mobilitate come poche altre volte nel corso degli ultimi 30 anni seguendo, emotivamente più che razionalmente, l’iniziativa di una giovanissima ragazza svedese, portata alla ribalta dai mass media e ospite dei più importanti consessi e tavoli mondiali sul “climate change”, mentre si preferiva tagliare corto sulle dichiarazioni di importanti scienziati e premi Nobel che cercavano di trovare un punto di equilibrio “sostenibile” tra necessità umane e gestione delle risorse energetiche del pianeta. Affermando, tra le altre cose, che sarebbe bene distinguere tra influenza delle attività umane sull’inquinamento dell’ambiente e quella sul clima nel suo complesso. Ma sono solo scienziati e premi Nobel, perché prenderli quanto meno in considerazione nel complicato dibattito sull’energia?
Giampiero Ledda