Dalle mie parti, è d’uso chiedere ad una persona che fa un’uscita “intelligente”, tanto più quando davvero intelligente non è, se per colazione abbia mangiato “pane e volpe”. Questo perché l’astuzia, un’arguta e brillante intelligenza, è da sempre attribuita nel mondo animale a questo canide selvatico. La “furbizia”, prima di scivolare progressivamente verso una “italica” accezione negativa, poteva considerarsi un sinonimo puro di astuzia, oltre che essere affiancata nel significato a destrezza, scaltrezza o ingegnosità. Parole di diversa etimologia e con sfumature tali da garantire un mondo di gradazioni e di possibili utilizzi, meglio contestualizzati e adatti, per indicare un uso efficace, efficiente e creativo dell’intelligenza umana.
Tutto questo fino all’avvento della parola SMART. Un piccolo grande contenitore, affascinante quanto “risparmioso” in lettere e suoni, capace di soppiantare sfumature, diversità e significati, in un solo astutissimo colpo. All-in-one, certo, ma fondamentalmente solo per noi italiani e per la nostra passione per le parole straniere, meglio se inglesi, che “fanno tanto figo”, quanto più se gli altri che ci ascoltano non ne comprendono pienamente il significato. Infatti, anche per gli anglofoni ci sono tante altre parole che, come per noi, descrivono con maggiore ricchezza l’intelligenza e le sue espressioni, ma… perché complicarsi la vita? Basta fare una scelta “smart” et voilà, il gioco è fatto.
E se all’inizio di SMART c’era solo una macchinina a due posti che di furbissimo mi chiedo ancora oggi cosa avesse (forse la possibilità di parcheggiarla indifferentemente di lungo o di largo a parità di stallo segnato sull’asfalto), di anno in anno, le “cose” smart si sono moltiplicate a dismisura. I telefoni cellulari sono diventati “smartphone”, scippandoci buona parte della nostra intelligenza originaria dalle orecchie e, poi, dagli occhi, stabilmente incollati ai loro schermi luminosi e “astutamente” attraenti. L’automazione delle abitazioni, alias domotica, le ha rese più “smart” (e più “home”), capaci di autogestirsi o di essere comandate a distanza grazie alla rete internet e a numerose applicazioni “smart” utili per fare cose “straordinarie” come accendere la lavatrice mentre si sta rientrando a casa da lavoro, direttamente dalla propria auto, o alzare e abbassare la temperatura impostata nelle varie camere, comodamente spiaggiati come cetacei sul proprio divano con chaise longue.
E il televisore? È bastato collegarlo, via cavo o wi-fi, al web ed ecco la botta di arguzia che gli mancava per diventare, anch’esso, smart (peccato che, poi, i contenuti televisivi non seguano, di pari passo, tutta questa intelligenza). Intere città etichettate come SMART fanno da habitat naturale a bipedi smart, quanto meno grazie alle loro dotazioni tecnologiche e a supporti esterni, aspettando la piena realizzazione del progetto “IoT” – Internet of Things, la rete di collegamento delle cose, dove tutti gli esseri inanimati (e secondo qualcuno anche quelli animati) saranno in connessione tra loro, scambiandosi dati in continuo e in modo molto “smart”, mentre, visto che si trovano, fanno anche da rimbalzo e trasmissione per le onde elettromagnetiche necessarie alle comunicazioni tra gli “smart objects”.
Da una macchinina insignificante ad uno SMART WORLD, è stato un attimo. Tutto dovrà essere “intelligente”. Ogni cosa lo sarà (e io continuo a conservare qualche dubbio sul fatto che non ci sia una inversa proporzionalità tra l’intelligenza delle cose e quella, residua, delle persone). Quindi, mi si accende una lampadina “smart” nella testa che, lampeggiando in antiquato codice morse, mi dice: “se tutto diventa smart, avrà ancora senso parlare di smart?”. Un po’ come dire se diventassimo tutti uguali, tutti ugualmente belli e tutti ugualmente intelligenti, esisterebbe ancora il concetto di “bello” e di “intelligente”? Buono, aggettivo “qualitativo”, contiene un giudizio (assoluto o relativo che sia) perché a qualcosa viene dato un peso che, come su una qualsiasi bilancia, contempla anche il suo opposto (cattivo, nel caso specifico). Senza qualcosa di “non smart”, quale sarà l’apprezzamento dell’intelligenza? Non è che tutta questa smania di immergerci in un mondo smart e di appiopparci prodotti e contesti smart sia più frenesia commerciale che desiderio di effettivo progresso? E se anche il fine ultimo fosse il progresso, che mondo sarebbe quello nel quale la nostra intelligenza perderebbe peso specifico e valore, quindi pratica e allenamento, potendo fare a meno di sforzarsi, anticipato e coccolato da un universo programmato per essere intelligente al posto nostro?
Forse dovremmo darci degli obiettivi realizzabili e, soprattutto, credibili (credibilità, chi era costei?). Ed ecco che, in tema di obiettivi, salta fuori nuovamente la parola SMART, ma questa volta come acronimo formato dalle iniziali delle parole che caratterizzano un obiettivo, o meglio ancora, che indicano “come dovrebbe essere” un obiettivo per definirsi tale. Specifico, Misurabile, Raggiungibile (Achievable in inglese), Ambizioso al punto giusto (Relevant, rilevante, sempre in inglese), Temporalmente determinato o determinabile. E allora, anche in questa trasformazione del tutto che ci circonda in una sorta di SMART-OPOLI per sole volpi, cerchiamo una misura, mettiamo da parte la propaganda e l’approccio da venditori di fumo e altre amenità, diamo il giusto spazio alla tecnologia e alle sue indubbie potenzialità e opportunità e fissiamo degli obiettivi seri, e definibili tali, in termini di “furbizia sostenibile”. Diversamente, rimarranno solo chiacchiere per le persone comuni, in concreto, e un fiume di soldi, pubblici e privati, per tutti quei furboni (pardon, SMARTONI) che hanno trovato l’ennesima mucca da mungere fino allo stremo.
Cassandro Ripitt