C’è una squadra di calcio, che non tutti conoscono, che era considerata la più forte squadra del mondo. Era un tempo in cui la Champions League non esisteva ancora, e le competizioni nazionali rischiavano di essere interrotte a causa della guerra. La Seconda Guerra Mondiale. Quella guerra in cui, per la prima volta, abbiamo toccato con mano la distruzione che può causare un ordigno nucleare. Anzi due.
C’era una squadra di calcio che era nata perché non si riconosceva più nei valori della squadra già esistente in città. Fu così che, un giorno di dicembre, una ventina di amici decisero di ripartire da zero vincendo poi i primi due derby.
Chi poteva immaginare che quella squadra firmò alcuni tra i più grandi record calcistici, ancora oggi insuperati?
C’era una squadra che giocava un calcio talmente vitale e talmente emotivo che tutti, da Nord a Sud del mondo, chiedevano di poterla ospitare almeno una volta per vederla dal vivo. Parliamo di un periodo in cui le tournée internazionali non erano nemmeno immaginabili: i mezzi erano quel che erano, la situazione politica ed economica era quel che era.
C’era una squadra talmente forte che era in grado di reggere settimane di imbattibilità e di ribaltare anche i risultati più sconfortanti.
Se era sotto, nel giro di quindici minuti, quindici, era in grado di vincere contro ogni pronostico.
Era il famoso “quarto d’ora”.
Lo si intuiva persino sugli spalti, poiché il capitano di questa squadra faceva un gesto, un segno, che rispetto alla rincorsa all’indietro di Cristiano Ronaldo poco prima di calciare una punizione, era tutt’altra cosa: si rimboccava le maniche, il capitano. È in quel momento che tutti i suoi compagni capivano che era ora di cambiare le cose, di correre di più, di ribaltare il risultato.
C’era una squadra che, aldilà degli schemi e del bel gioco, riusciva a vincere per un’altra peculiarità: il cuore.
Il cuore oltre l’ostacolo della guerra.
Il cuore oltre la povertà.
Il cuore oltre le persecuzioni razziali.
Il cuore oltre il buio in cui era precipitato l’essere umano nel secolo scorso.
È un cuore immenso, che diventa quasi religione: ogni domenica lo stadio era in attesa che “Gli Invincibili” (così erano chiamati i calciatori) iniziassero il loro quarto d’ora di grande calcio trasformando in un attimo il risultato di ogni match. E spesso, spessissimo, era proprio il pubblico a voler vedere il capitano tirarsi su le maniche (il gesto magico). Accadeva così che un Capostazione classe 1893 tirava fuori una tromba e intonava una nota magica dagli spalti. Era un suono, un richiamo, un legame unico con quei ragazzi che in campo davano tutto ciò che avevano. Quando la tromba del Capostazione suonava, il capitano si rimboccava le maniche e lo stadio diventava una bolgia festante.
C’era una squadra di calcio talmente forte da vincere 5 titoli nazionali consecutivi. Solo la Juventus di Massimiliano Allegri in tempi recenti riesce a fare meglio. Per i bianconeri è stato come riprendersi una rivincita contro gli anni bui di Calciopoli.
Anni di corruzione, in cui le squadre di Serie A ricorrevano ai metodi meno onesti per vincere delle gare o dei titoli.
C’era una squadra di calcio che era amata da tutti, perché i suoi calciatori erano uomini prima ancora che calciatori. E nel periodo in cui la guerra si faceva più buia, tiravano avanti e si allenavano in bicicletta in mezzo alla nebbia del nord in attesa dei tempi migliori. Nel frattempo alcuni di loro lavoravano in fabbrica.
C’era una squadra di calcio invincibile, che perì in una terribile tragedia aerea il 4 maggio del 1949 alle 17.04.
Fu probabilmente il lutto più coinvolgente e straziante della storia d’Italia (oltre due milioni di persone si riversarono in piazza per rendere omaggio ai calciatori deceduti).
L’aereo su cui viaggiavano i calciatori si schiantò su una collina, e tutto finì in un lampo.
Senza quell’incidente adesso avremmo visto un altro calcio, fatto di sentimento e passione. Avremmo visto un sport più sano, più onesto, perché onesti erano i suoi protagonisti. Non giocavano per soldi, gli Invincibili, ma perché sapevano che erano diventati indispensabili per gli italiani nel periodo più buio e cupo.
Senza quell’incidente aereo squadre come Inter, Milan, Juventus, avrebbero avuto probabilmente un’altra valida concorrente fra le squadre più amate dai bambini.
C’era una squadra di calcio, e quella squadra era il Torino. E quando il Capitano Valentino Mazzola si rimboccava le maniche una nota di tromba veniva intonata dal Capostazione Oreste Bolmida allo
stadio Filadelfia non lontano dal centro cittadino. E quando sulla collina di Superga l’aereo su cui viaggiava il Grande Torino si schiantò, l’Italia stava perdendo una parte essenziale della sua storia.
Essere del Toro, infatti, era un modo preciso di vivere, di essere: “Rimboccati le maniche quando c’è da sudare. Non mollare anche se le cose non vanno come vuoi. Se il destino si mette contro di te, peggio per lui.” Questi erano i valori del toro.
E con la tragedia di Superga l’Italia ha inevitabilmente perso tutto questo.
In un calcio governato dal denaro, quella del Toro è una storia che avrebbe cambiato il modo di vedere il calcio. E forse… la vita.
Eppure, il Toro non è morto, scriveva Indro Montanelli, è soltanto in trasferta.
Marco Cassini