Noi lo chiamiamo altruismo, nel mondo animale si chiama spirito del branco: è esso una nostra caratteristica innata, oppure si è sviluppato con l’evolversi del genere umano? Ma soprattutto, ci piace o non ci piace possederlo? Quest’ultima domanda sembra banale, ma la risposta non è affatto scontata…
Noi mammiferi abbiamo questa caratteristica comportamentale da sempre, ma con l’evolversi del nostro genere, come per tanti altri aspetti comportamentali, abbiamo iniziato a porci domande sul suo carattere quali-quantitativo e a reagire di conseguenza.
Il concetto di altruismo fa la sua comparsa con la filosofia positivista di Comte: la definizione che ne era scaturita personalmente mi sembra più vicina all’egoismo di un gruppo che all’altruismo vero e proprio, scevro da vantaggi materiali, se non il benessere psichico di chi esercita quella caratteristica.
Successivamente l’importanza dell’altruismo è cresciuta in parallelo col concetto di giustizia sociale: chi ha di più deve metterlo a disposizione degli altri meno fortunati (ma solo una parte, perché del comunismo totalitario non se ne sente proprio il bisogno…). Nell’ultimo periodo questo concetto è sfociato in una spiccata propensione a fare gli altruisti con le risorse degli altri: mi riferisco alle troppe politiche sociali il cui solo scopo è quello di elargire soldi alle fasce sociali deboli (o presunte tali), sprecando così l’opportunità di investire quel denaro in politiche attive per sviluppare l’economia e generare lavoro.
Il lavoro è uno dei principali motivi di benessere mentale delle persone, perciò creare posti di lavoro tramite lo sviluppo dell’economia vuol dire far stare bene il prossimo e, perciò, essere altruisti: tutto ciò è una bestemmia? Lo è sicuramente per i movimenti populisti, basati esclusivamente sull’antico motto latino “panem et circenses”, e per le correnti politiche dominate dal marxismo, che vede il lavoratore alienarsi col lavoro e identificarsi con ciò che produce.
Questa mia opinione sull’altruismo è sicuramente diversa rispetto a quanto oggi domina il dibattito pubblico, perché le soluzioni semplici (e, spesso, strategicamente inefficaci) sono molto più condivisibili da parte dell’opinione pubblica rispetto a punti di vista nuovi e lontani dal mainstream. Ma se dobbiamo far sognare l’opinione pubblica che si possa rendere immediatamente tutti felici, faremmo deleterio e costoso populismo, col risultato di spreco di risorse e sparizione dell’effimero beneficio dopo poco tempo.
Ognuno di noi deve contribuire al benessere psicofisico del prossimo, ma in modo definitivo: se una persona è disperata perché ha fame, non dobbiamo solo dargli tatticamente da mangiare, ma dobbiamo insegnargli strategicamente a come procurarsi il cibo. Parlando di qualcosa crudamente attuale in Italia, non è assolutamente altruistico elargire redditi di cittadinanza, sussidi di disoccupazione o cassa integrazione sine die, ma bisogna fornire alle persone la possibilità di sostentamento indipendentemente da elargizioni pubbliche o private. Perché quello non è altruismo, ma è un giogo a cui si tiene legata una parte dell’elettorato, a cui chiedere conto alle varie tornate elettorali.
Il mio pensiero sull’altruismo non ha vasta cittadinanza, ma vedo che ne ha sempre più presso le persone che possiedono le leve della gestione della politica, dell’economia e della società, cioè la cosiddetta classe dirigente. Certo, la fetta di coloro che fingono altruismo è ancora troppo ricca: vi dice niente la valanga di mancati restituzioni delle indennità parlamentari pomposamente annunciate da parte dei “portavoce” stellati, oppure coloro che contestavano l’arrivo di 50 profughi vicino Capalbio?
Basta con le lettere a Babbo Natale, basta con gli annunci sull’altruismo che altri devono dimostrare: essere altruisti richiede serietà e sincerità, prima di tutto con noi stessi, tutto il resto sono vuote e inutili chiacchiere da piazza, reale o virtuale che sia…
Gerardo Altieri