Un panorama magnificamente variegato
In “Storia della bruttezza” Umberto Eco scrive: “Bellezza dunque è staticità, estasi immutabile; la bruttezza è dinamismo, è esercizio di un fascino che attrae inspiegabilmente”. Mettendo in antinomia i due concetti, il semiologo spiega, alla stregua della filosofia eraclitea, che nessuna delle due nozioni può esistere senza l’altra. Secondo la legge dei contrari, bello e brutto vivono l’uno in virtù dell’altro. Ciò che permette il divenire del mondo è lo scontro perenne, e non la morta quiete; “Armonia contrastante, come nell’arco e nella lira”.
Onestamente devo ammettere che, assorbita dalla dottrina occidentale, ho sempre ritenuto che il bello fosse maggiormente degno di nota, associando il brutto alla malvagità, non c’è retaggio peggiore a cui potessero condannarci. Un castigo che ha reso cieche le nostre anime. Finquando non ho considerato la sepolta ricchezza del brutto. Quanto esso ha da esprimere, senza però averne la possibilità, relegato ai margini di una visione dominante. Lo scontro è dunque tra una staticità, universalmente riconosciuta, e il dinamismo che richiede una tensione continua alla ricerca, la capacità di comprendere un fascino sepolto, implicito, tacito; la volontà di scavare oltre la superficie, superando i sensi, la materialità dei corpi, e guardare attraverso l’anima. Tutto questo implica uno sforzo notevole, ma se ci si riesce, il paesaggio sommerso è magnificamente variegato.
Per la mia trattazione non ho potuto fare a meno di ricordare il Florentino Ariza di Gabriel Garzia Marquez: timido, di brutto aspetto e non particolarmente incline all’ostentazione. Un personaggio singolare, quello descritto dal poeta, che tra le righe, ha saputo dar vita, ad un amante tenero, riservato e attento. Florentino è un poeta di vita, amante del mondo, sofferente, e attratto dalle peculiarità più che dalla statica bellezza. Le sue donne sono fragili creature di cui prendersi cura, corteggiare e ammaliare col più fine dei modi, e non con il fascino e la tracotanza del Dongiovanni.
“Florentino Ariza sviluppò metodi che sembravano inverosimili in un uomo come lui, taciturno e squallido, e per di più vestito come un vecchio d’altri tempi. Aveva, però, due vantaggi a suo favore. Uno era un occhio sicuro per conoscere subito la donna che lo aspettava, perfino se era in mezzo a una folla, e anche così la corteggiava con cautela, perché́ sentiva che niente dava più vergogna né era più umiliante di un rifiuto. L’altro vantaggio era che loro lo identificavano immediatamente come un solitario bisognoso d’amore, un bisognoso della strada con un’umiltà da cane bastonato che le rendeva arrendevoli incondizionatamente, senza chiedere nulla, senza aspettarsi niente da lui, a parte la tranquillità di coscienza di avergli fatto il favore. Erano le sue uniche armi, e con loro fece battaglie storiche ma assolutamente segrete, che registrò volta per volta con un rigore da notaio in un quaderno cifrato, riconoscibile fra tanti per un titolo che diceva tutto: ‘Loro’”.
La bellezza nascosta di Florentino è da ricercarsi proprio nella ricerca di quella intimità, nella tendenza a mantenere al sicuro quanto di più prezioso, un carisma così potente da rendere attraente anche il più insignificante degli uomini.
“Il mondo è diviso tra quelli che fanno l’amore e quelli che non lo fanno. Diffidava di questi ultimi: quando uscivano di carreggiata, era per loro qualcosa di così insolito che si vantavano dell’amore come se l’avessero appena inventato. Quelli che lo facevano spesso, invece, vivevano solo per questo. Si sentivano talmente bene da comportarsi come sepolcri sigillati, perché́ sapevano che la loro vita dipendeva dalla discrezione. Non parlavano mai delle loro prodezze, non si confidavano con nessuno, facevano i distratti fino al punto di guadagnarsi fama di impotenti, di frigidi, e soprattutto di invertiti timidi, com’era nel caso di Florentino Ariza. Si compiacevano, però, dell’equivoco, perché anche l’equivoco li proteggeva. Erano una loggia ermetica i cui associati si riconoscevano fra loro nel mondo intero senza bisogno di un idioma comune”.
Virginia Chiavaroli