
Secondo quanto recita l’art.1 della Costituzione italiana, viviamo in una Repubblica Democratica (ed eviterei di aggiungere altre bestialità) e, come tale, l’autorità sovrana dello Stato è attribuita a rappresentanti del popolo per mezzo di elezioni. Per circa cinquant’anni, le consultazioni popolari, e la conseguente individuazione di “onorevoli deputati” e “senatori della Repubblica”, sono avvenute attraverso le modalità determinate da una “legge proporzionale classica”, con la possibilità lasciata agli elettori di esprimere un certo numero di preferenze tra i candidati in lista per questo o quel partito politico. Progressivamente, però, l’aumento di partiti e partitini, di “correnti” e transfughi, di “biscotti” e concordati, ha portato ad una sostanziale ingovernabilità del Paese, non riuscendosi più a garantire in maniera stabile (e senza troppi inciuci e ricatti) una maggioranza parlamentare a sostegno delle scelte e dell’operato dell’Esecutivo.
Dal 1993 ad oggi, in poco meno di 30 anni, “cambiare la legge elettorale” è diventato un must di qualsiasi programma politico di partito, sbandierato come un drappo rosso davanti agli occhi degli elettori sempre più incattiviti dai costi e dai risultati delle massime istituzioni repubblicane, ma di fatto utilizzato per depistare gli stessi cittadini da problemi più profondi e radicati nella cultura (e nell’insieme) dei protagonisti della scena politica italiana. Dai primi tentativi di spostare i meccanismi elettorali verso un sistema maggioritario puro, in poi, si è assistito ad un delirio di regole che nemmeno per giocare al Monopoli senza il libretto delle istituzioni tra bambini di otto anni.
Che per i nostri cari rappresentanti “sembra” che si tratti di un gioco, lo dimostrano anche i “nomignoli” con i quali le leggi elettorali sono state progressivamente identificate. La legge Mattarella, del 1993, è diventata “il Mattarellum” (va bene l’assonanza con il cognome del deputato ma l’immagine di un bastone di legno che si abbatte sui cittadini non è comunque accattivante); peggio è andata nel 2005 con la Legge Calderoli, ribattezzata “il Porcellum” dopo che lo stesso Calderoli la definì, in una trasmissione televisiva, “una porcata” (malpensanti, avevate subito collegato il soprannome della legge al promotore, vero?). Abbiamo poi avuto “l’Italicum”, mai utilizzato, e “l’Italicum 2, la vendetta”, in realtà Legge Rosati e quindi detta anche “Rosatum” o “Rosatum bis” anche senza un Rosatum prima versione. Infine, a completamento dell’attuale sistema misto con maggioritario uninominale (37% dei seggi) e proporzionale con collegi plurinominali, SENZA voto di preferenza né voto disgiunto (liste blindate, quindi, più che bloccate!), è intervenuto recentemente il taglio dei parlamentari dagli attuali 945 membri ai 600 che saranno prescelti alla prossima tornata elettorale.
Lo sdegno di molti partiti contrari a questa riduzione, e di molti cittadini che hanno votato no al referendum del 2020, si fondava sull’ipotesi di una “grave perdita democratica” direttamente proporzionale alla “perdita numerica” di rappresentanti del popolo. Direi che gli ultimi due anni ci hanno dimostrato, anzi sbattuto violentemente in faccia, che la democrazia con i numeri, in sé, c’entra ben poco, se 1000 persone, o 600 che siano, eseguono gli ordini di una oligarchia partitocratica coesa e determinata. Così come, se le minoranze smettono di essere salvaguardate e ascoltate (anche quando ammontano ad un non trascurabile 10/15% dei cittadini di un Paese), se i loro rappresentanti vengono zittiti o esclusi dal confronto politico, se i poteri dello Stato non sono più “in equilibrio” e, soprattutto, se vengono sovvertiti i risultati, già vincolati e teleguidati, delle consultazioni elettive e “al potere” troviamo chi non è stato indicato dal popolo o, addirittura, neanche ha mai affrontato il vaglio delle urne. La Democrazia, evidentemente, non è fatta solo di numeri né solo di maggioranze. Quello, eventualmente, è solo un travestimento. E anche mal riuscito.
Cassandro Ripitt