Le origini di un Natale dimenticato
Rinnovato di anno in anno, il mistero del dies natalis, disorienta e incanta. L’inspiegabile rapporto tra sacro e profano spinge l’uomo ad interrogarsi sul significato, a comprendere l’arcano di una ricorrenza che tuttavia resta nella sfera contemplativa. Ed ecco, si odono in lontananza sonorità pastose, sono le voci delle zampogne a scandire il tempo che si rinnova, note che sanno di nostalgia, profumo di casa, un crepitio di fuochi che segna gli attimi dell’attesa, nuova vita, una rinascita. Le mie ricerche affondano in epoca precristiana, quando i rituali celebravano la meraviglia del solstizio d’inverno, il sole tornava a salire allontanando in questo modo l’oscurità. “Capetiempe” ad indicare il ritmo regolare della natura.
Così, approdo all’omonima opera di Vittorio Monaco in cui l’autore spiega le origini materiche del culto: “[…] La data del Natale cristiano fu scelta dalla Chiesa col proposito di sostituire la festa di Mitra e del Sole Invitto con la celebrazione della nascita di Cristo. Per il paganesimo il sole costituiva una delle ierofanie essenziali: esso appariva come la manifestazione della luce che dissipa le tenebre, ma parimenti anche come ciò che rende possibile la totalità della vita grazie al calore che emana. Il sole, nel mondo pagano, era adorato per i suoi effetti materiali. Il paganesimo non respinse il naturalismo pagano, ma lo accolse arricchendone e trasvalutandone il significato. Gesù, il nuovo sole, non negava il vecchio, ma lo assumeva all’interno di un significato più alto, in quanto luce ‘non più soltanto cosmica, ma spirituale’. Le tenebre di cui parla il vangelo di Giovanni, e nelle quali Cristo ‘risplende’ e ‘illumina gli uomini’, sono le tenebre del peccato e dell’ignoranza, ma richiamano anche le tenebre e le antiche paure delle notti solstiziali. L’analogia tra i due piani, cosmico e spirituale, è affermata esplicitamente dai padri della Chiesa […].
Dal Quaderno peligno n. 7, pubblicato nel 2007 e dedicato proprio alle festività natalizie, apprendo, citando un articolo di Evandro Ricci, che: “Testimonianze del culto di Mitra si hanno ad Aveia, l’antica città dei Vestini (l’odierna Fossa presso L’Aquila), a Secinaro e ad Introdacqua. A Secinaro il tempio del dio Mitra (il Sol Invictus) era nella contrada Casale (Campo Sportivo) dove sono ancora visibili i resti e dove sono venuti alla luce molti reperti archeologici, fra i quali un rocchio di colonna, un coperchio di urna per l’acqua lustrale, l’ara bellissima ed intatta con il Sole scolpito agli spigoli, risalente al periodo imperiale di Roma. Proveniente dalla contrada Casale, una scultura litica rappresenta la testa di un bue. […] Ad Introdacqua sopravvive l’usanza di recarsi sul Colle della Plaia per osservare all’alba il sorgere del sole dalla Maiella nel giorno di San Giovanni. Tale usanza va messa in relazione proprio con il culto del Sole professato dagli antichi nostri progenitori: dopo la morte invernale, ecco il risveglio, la resurrezione della Natura con l’inizio della primavera. Sul Colle della Plaia, Antonio De Nino raccolse un frammento di terracotta, un ex voto, rappresentante la testa di un bue. L’usanza degli abitanti di Introdacqua ed il frammento della testa di bue rinvenuto sul Colle della Plaia, il tempio della contrada Casale di Secinaro e la scultura della testa di bue, vanno riferiti al culto dell’arcaico dio Mitra, perché il simbolismo taurino è proprio della divinità dell’Oriente, particolarmente dell’Iran”.
È in questo modo, forse, che riesco a spiegarmi il sentimento misto tra malinconia e sgomento che rapisce l’animo durante il periodo natalizio; è il rapporto tra uomo e natura, o tra uomo e divino, così ancestrale e profondamente radicato nell’essere umano ma al contempo difficoltoso da comprendere, che spinge ad infarcire la ricorrenza con nastri, merletti e luci colorate. Il timore dell’ignoto, unitamente alla perdita di capacità di sentire il mondo che ci circonda e a un consumismo accecante, ci ha proiettati verso noi stessi, e progressivamente meno verso l’altro, verso la natura, verso il divino. Dimenticando l’ineluttabile rapporto con gli elementi che ci rendono esseri senzienti, viviamo nella modernità di una festa svuotata delle sue caratteristiche primigenie, intorpiditi dal futile. In questo clima, faccio mio il sentire del poeta Ungaretti che in “Natale” scrive: “Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo / di strade. / Ho tanta / stanchezza / sulle spalle. / Lasciatemi così / come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata. / Qui / non si sente / altro / che il caldo buono. / Sto / con le quattro / capriole / di fumo / del focolare”.
Virginia Chiavaroli