
“Non mi preoccupo più di essere un brillante conversatore. Cerco semplicemente di essere un buon ascoltatore. Ho osservato che la gente che lo è viene solitamente accolta bene ovunque vada.”
Frank Bettger
Mi hanno sempre detto che parlare è necessario, che c’è bisogno di instaurare un dialogo quando si condivide un ambiente con qualcuno, anche se non ne hai voglia.
Perciò da ragazza, anche se la timidezza rendeva la mia vita assai complicata, ricordo che mi impegnavo ad ascoltare senza proferir parola e restavo, pur non condividendo i concetti altrui. Ero convinta, e lo sono ancora, che riempire spazi con ragionamenti inutili, privi di reale significato, potesse servire ad intrattenere ma non avrebbe determinato la qualità di un discorso.
Conversare è delizioso se nasce da uno scambio reciproco di opinioni, se il discorso è costruttivo e interessante ma soprattutto se alla base si pone l’ascolto dell’altro.
La mancanza di attenzione ha oggi l’aggravante dei messaggi di testo scritti in pochi secondi e inviati, l’essere smart condensa frasi in emoticon, forme di espressione che descrivono bene la collocazione esatta del tempo che viviamo.
Un’arma a doppio taglio per gli introversi che, se da una parte utilizzano il mezzo come supporto e facilitatore per le relazioni sociali, dall’altra non ne verranno mai fuori perché proprio quel veicolo isola, pone le distanze, chiude.
Senza contare il fatto che quando ci si trova in compagnia, lo smartphone divide, la parola è bloccata, perciò la difficoltà a socializzare per chi è schivo, aumenta.
Stare ad ascoltare l’altro è diventato difficile, ma anche comunicare con chi non è disposto a dedicare attenzione, chi pensa di sapere già tutto o peggio chi, con la presunzione di insegnare, origina dialoghi scadenti.
Se si provasse a mettere in discussione le convinzioni personali, forse si aprirebbe la porta a nuove possibilità. Culture diverse, realtà differenti e diversificati punti di vista arricchiscono modi di vivere e intendere i rapporti interpersonali.
In “Non c’è campo” film del 2017 di Federico Moccia, si evidenzia proprio la difficoltà del conversare in assenza di connessione. Racconta di un gruppo di studenti che, durante un viaggio di istruzione, approda in una piccola località del Salento scoprendo che non è possibile utilizzare il telefono perché “non c’è campo”, la cosa creerà tutta una serie di problematiche legate all’assenza di collegamento.
La pellicola rimarca la complicazione che sorge quando i ragazzi, costretti al colloquio, non sanno come affrontarlo. La disagiata condizione si conclude poi, dopo la travagliata esperienza, con la consapevolezza che stare insieme solo per il piacere di guardarsi davvero negli occhi e nel cuore, diventa un momento di grande arricchimento interiore.
L’impossibilità di ricevere e inoltrare spiana la strada dell’apertura verso gli altri, delle confessioni, di nuove confidenze e relazioni.
Ecco che il disagio diventa occasione, abbatte barriere e crea alternative, presupposti per costruire nuovi rapporti.
Accogliere, ascoltare, demolire convinzioni e guardare oltre, possono essere buoni propositi per una nuova e civile convivenza, che sia inclusiva e non si limiti a una sufficiente, estemporanea attenzione, ma a una apertura duratura e profonda. Un cambio di binario in controtendenza che potrebbe apparire azzardato, funge da vivo esempio per cominciare a distogliere lo sguardo da cose futili a favore di quelle semplici come il piacere di trovarsi in una piazza con amici, fino a tarda notte a chiacchierare, lasciando a casa la tecnologia.
Dovremmo imparare dai bambini che insegnano l’arte di discorrere senza filtri e interferenze esterne, con la purezza della loro età, puliti e non schiavi di preconcetti, loro sì che sanno cosa significa essere veri.
Far nascere sorrisi, abbracci e guardare ogni volto senza veli, essendo quel che si è, nudi e nuovi.
“Al Niente preferisco l’Inferno, se non altro per la conversazione.”
Luciano De Crescenzo
Maria Zaccagnini