
Riscopriamo il valore del dialogo contro il dogmatismo cieco
In questo mio dialogo con il lettore, voglio ricordare la figura di un libero pensatore che ha pagato con la vita per la grandezza delle sue idee. Sono sempre i dissenzienti ad essere messi a tacere, uomini che con forza si oppongono all’ordine prestabilito, pensando autonomamente. Nel clima attuale di oscurantismo, riscopriamo la forza del dialogo, quale strumento per la cura dell’anima. I mass media, univocamente diretti dai padroni, impediscono il confronto dialettico; eludono il libero scambio di idee necessario ad accrescere il pensiero critico. E nel mare del conformismo, nessuna voce fuori dal coro. Socrate, padre del metodo dialogico, esercitava la sua attività filosofica fermandosi ogni giorno a conversare con i concittadini ateniesi. Era solito dialogare indifferentemente con uomini e donne di ogni ceto sociale. Il filosofo affrontava argomenti quotidiani e casuali esaminando le opinioni del suo interlocutore. Inesorabilmente esse venivano dimostrate quantomeno infondate, ma è proprio da quello stallo, cioè dalla consapevolezza di non sapere, che si produce la costante ricerca della verità. Il dialogare socratico non vuole “partorire” alcun dogma, soltanto rimuovere gli ostacoli mentali che impediscono il divenire della conoscenza. Con i suoi dialoghi, Socrate intendeva dimostrare come la ricerca del bene derivi dal confronto costante. Nel Simposio, Alcibiade diletta i commensali con una descrizione minuziosa dell’abilità oratoria del maestro:
“Signori miei, io comincerò a lodare Socrate così, mediante immagini. […] Dico dunque che egli somiglia moltissimo a quei Sileni, messi in mostra nelle botteghe degli scultori, che gli artigiani costruiscono con zampogne e flauti in mano, e che, quando vengono aperti in due, rivelano di contenere dentro immagini di dei. E inoltre dico che egli somiglia al satiro Marsia. […] Marsia incantava gli uomini mediante strumenti, con la potenza che gli veniva dalla bocca […] le sue musiche da sole comunicano ispirazione, perché sono divine. E tu sei diverso da lui solo in questo, ossia che, senza usare strumenti, produci lo stesso effetto con le nude parole”. La musicalità dei discorsi socratici è ribadita anche più avanti nel passo: ad essi è riconosciuto il potere di agire come il canto irresistibile delle sirene. Il logos filosofico che incanta non è parola senza musica, ma una parola che ha assunto al suo interno la forza incantatrice della musica. Come riconosce lo stesso Alcibiade, la magia dialettica di Socrate tende al fine più alto, ad un ideale umano di comportamento che si esprime nella bellezza e nella bontà.
Il dialogo socratico non offre quindi un’immediata definizione della verità, ma l’affermazione di una istanza critica capace di dissolvere progressivamente l’atteggiamento di passiva adesione alle false apparenze di verità della vita quotidiana; insinuare il dubbio in tutte le opinioni comunemente circolanti e accolte con acritica certezza. “Oh, mio piacevole amico – spiega Socrate nel Teeteto – non hai forse sentito dire che sono figlio di una levatrice assai brava e prestante, di nome Fenarete? E che io esercito la medesima arte? È così, ma nessuno sa che io possiedo quest’arte, e la gente, poiché non lo sa, non dice di me questo, bensì che io sono il più strano uomo del mondo, e non faccio che gettare il dubbio nell’animo altrui […] è necessario che le levatrici, più delle altre donne, siano atte a riconoscere chi sia veramente gravida di un figlio e chi abbia solo la falsa apparenza di donna incinta […] orbene la mia arte somiglia a quella delle levatrici. Poter mettere alla prova se la mente del giovane partorisce nullità o menzogna oppure se è gravida di essere e di verità. E anche questo ho in comune con le levatrici, che io personalmente sono sterile di verità […] interrogo gli altri senza dare io stesso nessuna risposta a nessuna domanda […] il dio mi fece ostetrico, vietandomi di generare”. Questo brano descrive la maieutica socratica, cioè l’arte di suscitare negli altri, attraverso il dialogo, la capacità di orientarsi verso la verità. Verità che rimane, comunque, in Socrate, un termine di ricerca, senza mai diventare un’acquisizione definitiva.
Ancora, nel Carmide, la discussione verte sulla saggezza, e analogo è il procedimento attraverso il quale Socrate smonta la definizione dogmatica del suo interlocutore: per essere vera, la definizione dovrebbe valere sempre, al contrario, il filosofo dimostra come certi ambiti dell’esperienza la smentiscano in parte. Carmide, un giovane di nobili natali, afferma che la saggezza è la calma dello spirito che agisce lentamente, senza precipitazione. Socrate ammette: l’opinione pubblica afferma che i calmi sono i saggi, ma poi, dopo aver concordato che le cose sagge devono essere più belle delle altre, enumera una serie di casi che smentiscono la definizione: “A scuola di grammatica è forse più bello scrivere le stesse lettere svelti o lenti? È più bello imparare con facilità o con fatica?”. Dunque, poiché è evidente che la calma in tante occasioni non è una virtù, Socrate riesce a dimostrare che non la si può usare per definire una virtù quale la saggezza. Carmide deve perciò proporre un’altra definizione, ma Socrate lo smentisce con nuovi esempi di casi particolari, così fino alla conclusione del dialogo; e il giovane non sa più cosa è saggio e cosa no. Senza vincitori né vinti, si chiude il confronto, dal momento che nessun interlocutore ha prodotto la vera definizione di saggezza. Ma il vincitore è evidentemente Socrate, che ancora una volta è riuscito a ribadire che la presunzione di sapere, il dogmatismo, sono nemici dell’uomo, e che solo ponendosi in un’ottica di ricerca si può arrivare alla vera conoscenza.
Virginia Chiavaroli