Caro, dolce, misterioso paese
Mi accompagnano, in questi giorni, le parole di “Terra maligna”, romanzo di Cesidio Di Gravio. Una storia triste, racconto di un difficile passaggio generazionale segnato dalla miseria e dalla volontà di riscatto di tre giovani ragazzi di Fonte Regina costretti all’emigrazione per sottrarsi ad un destino di stenti. “Salvatore diede una soffiata alla cenere del camino ed il ciocco cominciò nuovamente ad ardere. ‘Sedete – disse ai figli. […] In questo paese maledetto – continuò Salvatore – non c’è avvenire. Zappare la terra è faticoso ed io non voglio che voi passiate la vita curvi sopra una vanga o dietro un aratro. Pensateci.”.
È il grido di un padre che cerca disperatamente di salvaguardare i figli da una fine simile alla sua, un amore immenso e un forte spirito di protezione emergono dalle parole di questo romanzo che tuttavia, contrastano con il sentimento d’ira della nuova generazione. “’Papà ha ragione…dobbiamo andare via da questo paese maledetto…qui si fa la fame…io vi dico che potessi partirei domani stesso…’. Luca pronunciò la parola ‘maledetto con rabbia e con forza. Eppure, lo amava, come amava suo padre, sua madre, i suoi fratelli. La maledizione era rivolta agli uomini che non facevano nulla per cambiarlo. ‘Maledetto paese!’”.
Spezzare il giogo insostenibile di un’eredità senza futuro, a quale costo? Si tratta, di situazioni non troppo distanti da quelle attuali, da cui, se è possibile, si riesce a cogliere più di qualche insegnamento. Certi schemi, sono tuttora ripetuti, sebbene con un sapore più moderno. Ai giovani lontani da paesi e famiglie, a chi torna, e a chi come me, un po’ per amore, un po’ per caso, un po’ per eredità famigliare, non è mai andato via. A noi la possibilità di ridisegnare un destino diverso nel luogo che abitiamo. “Casa” è ogni posto in cui ci si sente accolti, “famiglia” sono porte che si aprono al bisogno, anime disposte a condividere momenti di vita. Si tratta di interrompere un circolo, retaggio non sempre positivo, senza mai dimenticare il passato da cui anche inconsciamente abbiamo ereditato i tratti fondamentali dell’esistenza. Riconoscenti a chi ha generato nuova vita ma fautori di nuova sorte, creatori di unicità. Padroni del proprio destino.
“Addio piazzetta dei giochi giornalieri, delle corse più sfrenate, delle cadute dolorose, delle capriole non riuscite che davano il mal di schiena, del sangue ai ginocchi, dei pantaloni strappati, del pane inzuppato di polvere, del muso sempre sporco. Addio viuzze contorte, sempre buie, illuminate solo dallo sguardo della ragazza ai primi sogni, addio spinte volute, addio sassi alle finestre e ai lampioni, addio carretti abbandonati e pieni di sussurri d’amore. Addio chiesetta delle belle feste, della prima comunione, di Natale, di Pasqua, del catechismo, dei dolcetti del parroco, del vino che succhiato prima della messa nella sagrestia mandava in estasi, della Via Crucis, dei canti, delle litanie, degli sposi. Addio paese gioioso e triste, meraviglioso e nullatenente, assolato e affamato, invidiato e odiato, ciarliero, buono e cattivo, sempre uguale; addio paese di mamma, di papà, di nonni, di tutti, di compagni, di compagne, di sogni, di sospiri, di vita, di morte. Addio, addio per sempre!”.
Virginia Chiavaroli
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