Leggendo Vite immaginarie di Marcel Scwob, mi sono imbattuta nella storia di Cratete, che mi ha particolarmente colpita. Le storie di vita scritte nel libro non sono biografie classiche, più che altro sono accenni biografici, dove il particolare più misero e triviale viene ingigantito da una lente visionaria <<per rendere alla vita bruta quella carica allucinatoria che essa ha in origine>>, come disse E. de Goncourt (scrittore e critico letterario francese). E dunque tornando al filosofo nato a Tebe e discepolo di Dioniso che abbandonò le sue ricchezze per vivere da mendicante, Scwob scrive che: <<Rimase tutto nudo nell’immondizia, e raccattò le croste di pane, e le olive marce e le lische di pesce secco per riempire la sua bisaccia. Diceva che quella bisaccia era una città larga e opulenta dove non si trovavano né parassiti né cortigiane, e che produceva a sufficienza per il suo re, timo, aglio, fichi e pane. Così Cratete portava la sua patria sulle spalle e se ne nutriva>>.
Questi aneddoti che avvicinano l’uomo ad un essere simile ad una bestia, ma una bestia amorevole come lo era Cratete, che viveva tra e peggio dei cani, e che aiutava i suoi simili con infinito rispetto, mi hanno colpita profondamente. Quello di Cratete è un comportamento, certamente simile a quello di molti asceti ma, probabilmente, grazie al fervore immaginifico di Scwob, ho provato una profonda empatia per questo filosofo nato ricco e morto di stenti, diseccato dalla fame per sua scelta. Empatia per quel certo disprezzo verso i parassiti e le cortigiane, e fascinazione per quella forza creatrice capace di vedere, trovare, e vivere il mondo in una bisaccia.
Esistono ancora figure del genere che anziché rifugiarsi in templi sacri, vivono come barboni? Non so se il nostro tempo potrà partorire personaggi di un certo intelletto e spessore morale.
Un tempo, il nostro, schiacciato da una corsa infinita.
Un tempo, il nostro, che si morde la coda, che ci stringe un cappio al collo.
Siamo schiavi del tempo e, non abbiamo neanche più tempo di riflettere, di osservare il cielo, di pensare, di godere di una lettura impegnativa come Vite immaginarie, che ci catapulta in storie lontane da noi, dove, all’apparenza, nessuno sembra sentirsi schiavo del tempo. E allora mi chiedo se nell’antichità, il tempo, scorresse più lentamente. Non credo, anche se so bene che il tempo è relativo… La vita dell’uomo era di certo più breve, tracciata e pervasa da difficoltà di ogni sorta, eppure, ho la sensazione che l’uomo non sentisse il fiato del tempo imputridire. Un tempo breve per vivere ma dilatato, dunque, dall’assenza dell’affanno e della paura, paura della morte.
Un tempo dove gli uomini erano coraggiosi, forgiati dall’asprezza del vivere. Ed è in quel tempo che vivevano i grandi maestri, che si interrogavano non solo sulla nostra provenienza, ma anche sul nostro destino. Cratete pensava che gli dèi avessero deliberatamente reso gli uomini infelici, <<volgendone la faccia verso il cielo e privandoli della facoltà che hanno gran parte degli animali, di camminare a quattro zampe. Poiché gli dèi hanno deciso che bisogna mangiare per vivere, pensava Cratete, essi dovevano volgere la faccia degli uomini verso la terra, dove crescono le radici: perché non è possibile pascersi d’aria o di stelle>> scrive Scwob. E l’uomo moderno? Quello elevato dal progresso, quello che grazie al progresso ha avuto più tempo per vivere, che fa? Lo spreca.
Anche qui ho delle sensazioni. Ebbene, mi sembra che cammini a quattro zampe, e che la sua faccia non guardi mai le stelle, anzi al contrario, rivolta verso il basso, sembra seguire tracce. Tracce che conducono verso il potere, la gloria e la vanità. Il suo Dio è il denaro.
Alessandra De Angelis