Non solo fra i giovani, il pensiero che la scuola non possa servire a nulla colpisce persino le persone adulte ed è brutto dirlo ma anche gli insegnanti sembrano essersi convinti che adesso lo studio non ha più lo stesso valore di un tempo. A quanto pare studiare non serve a nulla, lo sfogliare libri con pagine interminabili porta solo alla noia, le espressioni matematiche servono solo ai programmatori professionisti e la storia… a chi può importare dell’esistenza dei dinosauri, delle prime forme di vita o dei primi uomini sulla Terra se ha nessuno importa del presente e soprattutto del futuro. Iniziamo col difendere la scuola, almeno per ora quella elementare che insegna ad eseguire gli elementi fondamentali e che nessuno ha mai messo in dubbio la loro importanza come leggere, scrivere e saper fare bene i conti, iniziano a venire seri dubbi riguardo l’utilità delle scuole medie e superiori. La scuola mira all’acquisizione di conoscenze teoriche e pratiche e al conseguimento di criteri di orientamento della condotta individuale, in una serie di discipline e ambiti di vita, attraverso una trasmissione graduale del sapere, dagli ordini inferiori a quelli superiori in cui è ripartito il sistema dell’istruzione. La società riconosce l’importanza della scuola per il suo valore educativo, ma l’importanza scolastica non si limita solo alla formazione dell’individuo, influisce direttamente, anche, sul miglioramento economico della società dove è inscindibile, o almeno dovrebbe esserlo, il collegamento economia – scuola – lavoro. Possibile causa della sottoccupazione, nonostante alti livelli di scolarità, è la stessa massificazione e democratizzazione dell’istruzione, non negativa per il coinvolgimento maggiore di persone, ma per un abbassamento dei livelli culturali. Caratteristica fondamentale della scuola è o dovrebbe essere quella di creare delle possibilità di ascesa sociale, rendendo tutti uguali, con la valorizzazione dell’individuo per quelle che sono le sue potenzialità e il suo impegno, e non in base alla provenienza sociale. Purtroppo, la Scuola oggi è completamente degradata, risultando agli ultimi posti in Europa, producendo una miriade di promossi che non hanno i requisiti e che, una volta posti nel mondo del lavoro, data la precarietà di questo, non hanno le conoscenze, competenze e abilità per realizzarsi e trovare un’occupazione. Per questo cresce l’importanza del lavoro dei docenti, considerando, anche, la disoccupazione e la globalizzazione, che concorrono a una maggiore responsabilità legata alla funzione civile-educativa degli insegnanti nei confronti dei giovani e della società.
Non è irrilevante che il miglioramento economico del paese, ma anche delle autonomie locali, possa avvenire per mezzo del miglioramento del sistema scolastico, oltre al maggior investimento nella ricerca, attraverso un incremento dei livelli culturali e una maggiore interazione con il mondo lavorativo. Ovviamente non può essere solo una riforma della Scuola a garantirne il miglioramento, ma devono essere gli stessi docenti ad impegnarsi personalmente per impartire più cultura e più strumenti per un’analisi critica della realtà, per cui diventa inevitabile una maggiore preparazione degli stessi, sia nell’ambito specifico delle loro materie d’insegnamento che in quello tendente ad una preparazione generale necessaria per sapersi muovere fuori dalla scuola quando un giorno questa finirà. In conclusione si può dire che lo studio è un diritto di tutti perché permette non solo di avere una certa cultura con cui confrontarsi col mondo, ma permette un’elasticità mentale che si applica tutti i giorni. L’ignoranza comprende anche l’ignoranza dei propri diritti, e un popolo ignorante è più facile da sottomettere e comandare. Lo studio dovrebbe essere un diritto che poi di fatto non lo è perché a molti non è concesso e chi ha la fortuna di poter studiare ha il dovere di farlo se non altro per chi non ha la possibilità. Studiare infatti è un dovere di tutti gli alunni per diplomarsi e poi potersi proiettare nel mondo del lavoro specialmente in questi tempi dove è difficile trovarlo e mantenerlo.
Le sfide a cui la nostra società è chiamata a rispondere oggi sono sempre più complesse e richiedono nuovi approcci e nuove strategie. Bisogna dunque chiedersi: oltre alle conoscenze di base – come italiano, matematica e scienze -, gli studenti hanno bisogno di acquisire nuove competenze, come ad esempio pensiero critico, empatia. Le future generazioni devono essere sempre più coinvolte nella progettazione della loro esperienza educativa, in modo da poter scoprire le proprie inclinazioni, costruire la propria individualità, acquisire nuove abilità. La grande sfida che il mondo scolastico deve affrontare oggi consiste dunque nel fornire a tutti i suoi attori, studenti, insegnanti, genitori, esperti educatori gli strumenti necessari per costruire insieme un sistema educativo migliore, pronto a rispondere alle sfide del 21esimo secolo. Gli attuali modelli educativi sono in grado di fornire alle generazioni future gli strumenti adeguati per affrontare livelli di complessità in continua crescita? Oggi più che mai, la nostra società sta sperimentando una crescente complessità di sfide da dover affrontare, causate da trasformazioni multilivello. Basti pensare alle rapide innovazioni tecnologiche (come l’avvento dell’intelligenza artificiale, dei computer quantistici, delle block chains, ai cambiamenti geo-politici, come la Brexit e le sue conseguenze, alle trasformazioni ambientali, come la crisi climatica, oppure a quelle socio-economiche, come la povertà dilagante nei paesi in via di sviluppo o l’avvento della generazione e delle sue necessità digitali. Risulta dunque evidente come la complessità delle sfide a cui siamo costantemente chiamati a rispondere sia strettamente connessa alle logiche evolutive: man mano che come esseri umani cresciamo e cambiamo, siamo spinti ad imparare nuove abilità, acquisire nuove competenze e adottare nuovi punti di vista per affrontare i problemi. Ed è così che buona parte della popolazione mondiale rimane completamente esclusa da un sistema pieno di barriere ed ostacoli verso quello che dovrebbe essere un diritto fondamentale di ogni essere umano: essere istruito, avere accesso ad una formazione di qualità per prendere decisioni consapevoli, essere aperto alle novità ed inclusivo nei confronti del prossimo. Inoltre, negli ultimi anni il mercato del lavoro ha subito profondi cambiamenti e l’Italia è tra i paesi che ancora oggi registrano maggiori difficoltà nell’accogliere queste trasformazioni. Secondo il Rapporto Annuale 2020 dell’ISTAT, l’Italia è la nazione con il maggior numero di NEET in Europa, ossia di giovani che non studiano e non lavorano. Questa condizione si verifica non solo per gli scarsi investimenti in formazione e istruzione o per la mancanza di supporto nell’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro: il report stilato dal World Economic Forum dimostra infatti che il 65% dei bambini che oggi frequentano la scuola primaria in tutto il mondo, in futuro farà dei lavori che ancora oggi non esistono. Per preparare i giovani ai mestieri del futuro occorre investire in nuove competenze, come la digitalizzazione, il lavoro di gruppo, l’attenzione all’empatia e alle relazioni sociali. In questo scenario così articolato, costituito da rapporti ed interessi economici, esigenze da conciliare e obiettivi da raggiungere, appare necessaria la definizione di strategie e approcci innovativi. Bisogna riformulare questi problemi con un approccio utente-centrico, in grado di offrire a tutti gli attori del sistema soluzioni effettive ed efficaci. Occorre dunque chiedersi: quali strumenti possono essere utilizzati per proporre soluzioni innovative in linea con i cambiamenti della società? Quali strategie possono essere adottate per creare un linguaggio comune tra tutti gli attori del sistema scolastico? Come si possono affrontare i problemi del mondo educativo facendo ricorso ad un approccio olistico?
Per definizione, con il termine “educazione” si intende “il processo di trasmissione culturale, diverso per ogni situazione storicamente e culturalmente determinata, mediante il quale, all’interno di specifiche istituzioni sociali viene strutturata la personalità umana e integrata nella società” . Sin dall’antichità, l’educazione è sempre stata considerata come una componente fondamentale per la costituzione di una società solida e strutturata. Gli antichi greci definivano “paideia” il percorso di istruzione dei futuri cittadini, che si basava sull’apprendimento di specifiche conoscenze e abilità: la credenza di base era che senza educazione non potesse esserci cultura, e che la cultura fosse fondamentale per poter affermare il potere non soltanto a livello individuale, ma soprattutto su scala collettiva. Per i greci prima e per i romani dopo, la madre rivestiva un ruolo determinante nell’educazione dei propri figli: mentre il padre era fuori per lavoro, la donna aveva il compito di occuparsi non solo della gestione della casa, ma anche della crescita culturale ed emotiva dei bambini. Il modello educativo attuale affonda ancora oggi le sue radici in questi antichi principi, didattica trasmissiva, educazione a carico della mamma, tramandare fatti storico-culturali alle generazioni future etc., oltre che nella convinzione che l’intelligenza sia basata esclusivamente sul ragionamento deduttivo e sulla conoscenza accademica sviluppata a partire dallo studio dei libri e dalle lezioni frontali, in cui l’insegnante spiega e lo studente apprende i concetti in modo quasi passivo. Con la Prima Rivoluzione Industriale e l’avvento dell’Illuminismo nel 18esimo secolo ha luogo una significativa “rivoluzione educativa”. Prima di allora infatti, non esistevano sistemi di educazione pubblica: nella maggior parte dei casi, l’istruzione dei ceti sociali più poveri avveniva in famiglia, mentre le classi più ricche affidavano la propria formazione ai gesuiti. In quest’ultimo caso si trattava principalmente di giovani nobili e figli di famiglie borghesi, destinati un giorno ad essere parte attiva della classe dirigente e governare sulla società: è questo il motivo per cui era loro concesso ricevere un’educazione più strutturata e solida rispetto agli altri, che potesse consentirgli un giorno di prendere decisioni consapevoli e guidare le masse. L’educazione era quindi strettamente legata alla disponibilità economica e al ceto sociale di appartenenza, e vi era la profonda convinzione che i figli delle classi lavorative fossero “geneticamente incapaci di leggere e scrivere”. John Locke e gli altri padri dell’Illuminismo speravano che “attraverso l’istruzione si sarebbe potuto promuovere il progresso dell’uomo, anche in chiave morale”: ecco perché dalla seconda metà del 18esimo secolo si afferma il riconoscimento dell’alfabetizzazione come fondamento dell’istruzione delle classi inferiori. Ma è solo nel 1791 che la “pubblica istruzione” si trasforma da concetto teorico in fatto pratico: la Costituzione francese si impegna infatti a promuovere e garantire “un’istruzione pubblica, comune a tutti i cittadini, gratuita nelle parti indispensabili a tutti gli uomini”. L’affermarsi di un’educazione di massa in tutta Europa rifletteva dunque la convinzione generale che l’istruzione potesse essere considerata come un effettivo strumento di cambiamento sociopolitico ed economico). Se però questo modello educativo poteva ben adattarsi al contesto economico e culturale dell’Età dei Lumi, oggi – quasi 200 anni dopo dall’avvento della “scuola di massa” – la società si sta preparando alla “seconda rivoluzione educativa”: il mondo in cui viviamo si sta evolvendo rapidamente; la tecnologia, la globalizzazione e tutte le ultime innovazioni “sfidano il ruolo della scuola come sede principale dell’apprendimento. Secondo Ken Robinson, una delle figure di spicco nel panorama dell’istruzione a livello internazionale e fautore di una scuola “creativa”, “la scuola oggi è ancora organizzata sul modello di una linea di fabbrica: ci sono campane che suonano, spazi divisi per sesso, studenti smistati in gruppi in base alla loro età”. Si fatica dunque a rendersi conto che, insieme alle evoluzioni che caratterizzano la nostra società contemporanea, anche gli individui stanno cambiando e con loro si stanno trasformando le loro esigenze. L’idea di “linea di produzione” affermatasi dalla Rivoluzione Industriale in poi prevede una crescita standardizzata e rispondente a canoni ben specifici: test e verifiche, standard da raggiungere, curricula educativi sempre uguali; si tratta di un modello che occorre ripensare e riprogettare sin dalle sue fondamenta. Oggi molti paesi a livello internazionale sono impegnati nella riforma dei modelli educativi. Ci si chiede, in maniera sempre più insistente: come si possono formare le generazioni del futuro, affinché siano pronte a trovare un posto nell’economia del 21esimo secolo, se il mondo si trasforma in tempi sempre più rapidi? Per promuovere esperienze educative di valore, occorre tenere in considerazione il contesto sociale, politico, economico e culturale in cui la scuola è chiamata ad operare. Bisogna anche osservare, con occhio attento, le esigenze di tutti gli attori del mondo educativo: dai bambini agli insegnanti, dagli esperti educatori ai genitori. Risulta necessario favorire lo sviluppo di una didattica per competenze, di tipo collaborativo ed esperienziale, per consentire una maggiore personalizzazione dei processi di apprendimento degli studenti, in considerazione delle loro specifiche esigenze”. L’istruzione è un diritto universale, così come dimostra l’Obiettivo 4 dell’Agenda ONU 2030: esiste una profonda correlazione tra la qualità dell’educazione offerta e l’affermazione di società più eque, inclusive e sostenibili, ed è per questo che bisogna intervenire con un approccio integrato e divergente, in grado di fare luce sulle problematiche del sistema scolastico attuale e proporre strategie efficaci per migliorarlo.
Quando si parla di innovazione in ambito scolastico, non ci si riferisce soltanto alla digitalizzazione della didattica, ma anche all’introduzione di nuovi metodi di insegnamento, alla creazione di nuove reti collaborative tra gli attori della scuola, alla costituzione di nuovi spazi per l’apprendimento, lo scambio e la crescita multilivello. Numerose scuole su scala mondiale hanno già, da diversi anni, intrapreso un profondo processo di rimodellamento e di miglioramento dell’offerta formativa, come ad esempio la Blue School di New York, la Steve Jobs School di Amsterdam.
Sulla scia del dibattito degli ultimi decenni sulla “seconda rivoluzione educativa”, nel 2006 il Consiglio Europeo e il Parlamento Europeo hanno introdotto per la prima volta il concetto di didattica per competenze nella Raccomandazione intitolata “Quadro comune europeo alle competenze chiave per l’apprendimento permanente”, approvata il 22 maggio 2018. All’interno del documento, sono contenute le competenze chiave di cittadinanza, considerate da allora i principi fondamentali da seguire per la creazione della scuola del futuro L’Orientamento, 2021: Comunicazione nella madrelingua, Comunicazione nelle lingue straniere, Competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia, Competenza digitale, Imparare a imparare, Competenze sociali e civiche, Spirito di iniziativa e imprenditorialità, Consapevolezza ed espressione culturale. Si tratta dunque di “quelle competenze di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personali, l’occupabilità, l’inclusione sociale, uno stile di vita sostenibile, una vita fruttuosa in società pacifiche, una gestione della vita attenta alla salute e la cittadinanza attiva. Esse si sviluppano in una prospettiva di apprendimento permanente, dalla prima infanzia a tutta la vita adulta, mediante l’apprendimento formale, non formale e informale in tutti i contesti, compresi la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro, il vicinato e altre comunità”. In linea con queste competenze, la scuola del 21esimo secolo dovrebbe trasformarsi da luogo di didattica trasmissiva a spazio di apprendimento generativo, dove sperimentare abilità e competenze. Bisognerebbe inoltre connettere la conoscenza alla vita reale, consentendo allo studente di trasformarsi in un attore attivo nel suo stesso processo di crescita e formazione.
Lo scenario delineato fino ad ora mostra quanto la “seconda rivoluzione educativa” sia un fenomeno di massima priorità. L’obiettivo di progettare un’esperienza educativa di valore non solo per gli studenti del futuro, ma anche per l’intera comunità scolastica: l’educazione è, infatti, un “fatto collettivo”, ed è responsabilità di tutti fornire alle generazioni presenti gli strumenti necessari per poter affrontare al meglio le sfide di crescente complessità proposte dalla società del 21esimo secolo. Oltre alla mancanza di finanziamenti e investimenti, la scuola italiana mostra dunque alti livelli di resistenza al cambiamento: solo il 73% degli insegnanti del Paese ritiene che la propria scuola si adatti facilmente e velocemente al cambiamento quando necessario. Le differenze rispetto al resto d’Europa si registrano anche in termini di competenze: l’Italia si classifica terza in Europa per quantità di lavoratori con competenze inferiori rispetto alla mansione ricoperta e al settimo posto rispetto ai lavoratori con competenze superiori al ruolo ricoperto. Circa il 6% dei lavoratori italiani possiede competenze basse rispetto alle mansioni svolte, mentre il 21% è sotto qualificato: è una chiara evidenza dello “skill mismatch”, fenomeno contemporaneo di disaccoppiamento tra domanda e offerta di lavoro sul mercato. Come sottolineato dalla Commissione Europea, bisognerebbe puntare su forme di “apprendimento duale”, in grado di combinare l’apprendimento teorico con l’acquisizione di competenze pratiche utili per il posto di lavoro. Per questo motivo serve investire nella scuola pubblica, soprattutto dai livelli di istruzione più bassi: per combattere i gravi fenomeni di esclusione sociale, per abbattere i livelli di disoccupazione, per minimizzare il divario tra competenze e richieste di mercato e per assicurare a tutti gli individui un’istruzione efficace e di valore.
Come sostiene l’International Experiential School, la scuola italiana è ingabbiata nella didattica della “risposta esatta” ed è ancora strettamente legata al modello della lezione frontale International Experiential : i migliori processi di apprendimento, tuttavia, si attivano attraverso le esperienze di gruppo e il confronto tra pari. Occorre promuovere un lavoro sempre più sinergico tra genitori e insegnanti e avviare un dialogo strutturato volto a migliorare l’esperienza educativa dei bambini.
Il sistema scolastico della Finlandia sembrerebbe essere uno dei sistemi scolastici migliori del mondo. All’età di sette anni i bambini finlandesi iniziano la scuola dell’obbligo, che dura nove anni. A circa 16 anni possono quindi decidere se proseguire negli studi oppure no. Se decidono di farlo hanno due opzioni: il liceo, che prepara agli studi accademici, e la scuola professionale, che offre delle competenze in un certo mestiere e dà la possibilità di continuare con la scuola universitaria professionale, Il giovane laureato avrà così un ricordo della sua laurea, che preserverà. Il sistema universitario finlandese comprende 16 università e 24 scuole universitarie professionali: in tutto 40 università che ogni anno offrono ai neodiplomati la possibilità di studiare gratuitamente. Questa è la struttura generale del sistema educativo finlandese. A differenza dell’Italia e di molti altri Paesi, in Finlandia non esistono scuole private. Tutte le scuole dell’obbligo sono pubbliche, il che rende il sistema molto uniforme. In Finlandia tutti i bambini frequentano le stesse scuole a prescindere dallo stipendio o dal livello di istruzione dei genitori. Tutti i bambini sono nella stessa scuola: il figlio del Primo Ministro assieme ai figli e alle figlie degli autisti d’autobus, degli insegnanti o di chiunque altro. In Finlandia nessuno può scegliere una scuola diversa per i propri figli, non esistono nemmeno scuole speciali per bambini con particolare talento o con difficoltà particolari.
La scuola Finlandese può essere chiamata la scuola della domanda. Si privilegia la capacità, infatti, di fare domande a quella di dare risposte pre-confezionate. L’ascolto e l’osservazione del docente prevale sul suo intervento diretto. Si impara facendo e fino a 13 anni non ci sono voti.
Questo tipo di sistema è reso possibile in primis dal fatto che tutti gli insegnanti ricevono un’ottima formazione: tutti devono studiare all’università, anche chi lavora nelle scuole materne. A partire dalla prima classe della scuola elementare la qualifica minima per insegnare è la laurea magistrale in teacher training. È quindi fondamentale che chi lavora a contatto coi minori abbia un’ottima e solida educazione. L’insegnamento di sostegno in Finlandia è unico al mondo perché si basa sul riconoscimento delle reali difficoltà di apprendimento, sulla loro evoluzione e prevenzione piuttosto che sulle cause mediche. È affiancato da psicologi, medici, consulenti, assistenti sociali e altre figure.
Il concetto di classe è superato da tempo e si lavora per gruppi e sottogruppi di apprendimento dove ogni studente può trovare ciò di cui ha più bisogno: un approfondimento, un recupero o lo sviluppo di un particolare talento. Questo sistema favorisce l’inclusione e lo sviluppo delle competenze sociali.
ll focus è centrato sullo studente e sulle relazioni: si dà più importanza alla responsabilità e alla fiducia che alle verifiche o agli esami.
Gli insegnanti in Finlandia tendono a non dare valutazioni negative agli allievi. Sanno che questo rischia di diminuire la loro motivazione e indirettamente di aumentare la disuguaglianza sociale.
In Finlandia la valutazione dei ragazzi è basata su una filosofia del tutto diversa dalla nostra: ogni studente viene giudicato a partire dalle sue stesse abilità e dal potenziale che ciascuno possiede secondo il parere del singolo insegnante. In questo senso, nelle scuole finlandesi il “fallimento” ha un significato diverso rispetto ad altri Paesi. In Finlandia, uno studente o una studentessa che “fallisce”, è qualcuno che non ha fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità, non qualcuno i cui risultati vengono messi a confronto con delle statistiche.
Per il sistema finlandese la tecnologia è uno strumento didattico, al pari di altri, non lo strumento per eccellenza. Ogni aula è attrezzata e quasi tutti i ragazzi hanno un tablet in dotazione. I docenti sono discretamente preparati ad utilizzare le tecnologie e ogni scuola ha alcuni docenti molto esperti nel settore. Molte delle relazioni burocratico-amministrative scuola-famiglia avvengono per via informatica. Ma la tecnologia non è il focus del processo di insegnamento-apprendimento né il succedaneo dei docenti.
Maria Ragionieri