Sport e discriminazioni: oggi come nella Sparta del VI sec a.C.

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Lo sport può essere materia di unione e unificazione. Può aiutare a creare gruppi sociali coesi dato che allenarsi insieme presuppone uno sforzo enorme e tanti disagi legati alla fatica condivisa. Anche la compartecipazione per raggiungere la meta, per avvicinarsi ad un risultato che presupponga l’impegno di ogni singolo membro del gruppo non è un fattore da sottovalutare.

Anche in passato, dove nacque lo sport, non poteva mancare l’aspetto dell’unione sociale, sia per gli uomini che per le donne. E si, le donne in alcuni casi potevano partecipare ad agoni sportivi e allenarsi alla stregua degli uomini. Uno dei casi più celebri è sicuramente quello delle donne di Sparta. 

Le spartane potevano allenarsi per discipline quali la corsa e il lancio con il disco. Esercizi duri, atti a modellare i loro corpi, a farle diventare forti e adatte a partorire figli altrettanto sani e potenti. Si potrebbe pensare che le donne spartane fossero più libere, rispetto alle loro contemporanee ateniesi a cui era vietata non solo la possibilità di partecipare a sport o allenarsi ma molte altre interazioni sociali. 

Se l’avete pensato siete in errore, la preparazione fisica e atletica delle ragazze spartane, equiparate negli allenamenti ai ragazzi fino al compimento dei loro 16 anni è una questione maschilista.

La società spartana tra VI e V sec. a.C. è strenuamente legata alla guerra e al valore che essa ha per la polis. Far allenare le donne significa generare figli sani e donne forti in grado di reggere una piccola ma solida realtà anche in assenza degli spartiati spesso fuori per la guerra. Forse vi può comunque sembrare una società che dona diritti, infondo loro potevano ciò che le loro sorelle ateniesi non sognavano nemmeno. Ma anche questa concessione sociale era uno strumento legato alla cultura della guerra e non ad un diritto femminile acquisito.

Tutto questo succede ancora oggi. Le discriminazioni non passano mai di moda. Sapevate che per moltissimi sport famosi le donne non sono considerate professioniste a nessun livello? 

Questo comporta una serie di disagi non solo a livelli di risvolti sociali ma anche economici e assicurativi. Il CONI (ma non solo) grandissima federazione sportiva italiana, non ha una sezione che riconosca e tuteli il professionismo nello sport per le donne. Per nessuna! Immaginate una Federica Pellegrini o una Valentina Vezzali, regine e campionesse a livello mondiale, considerate in Italia come dilettanti? E bene si, avviene questo. 

Sarebbe ovvio pensare a quanto gli sport femminili facciano meno “marketing” di quelli maschili, ma basta questi per non definire una donna professionista? 

Come in tutte le cose c’è una scappatoia, le donne possono entrare nei corpi armati, unici a prevedere assicurazioni preposte per il professionismo nell’agonismo femminile. Ma una donna, se vuole sfondare nello sport deve essere per forza finanziere?

È un valore aggiunto se lo è ma ad oggi anche una costrizione. 

Riflettiamo su quanto (anche) lo sport sia rimasto in mano del gioco maschilista (non in mano agli uomini che comunque ne usufruiscono).

Dott.ssa Andrea Di Giovanni

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