Rifondare l’idea della biblioteche per una fruizione universale anche dei testi antichi

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Nell’ambito dei libri, parlare di conservazione, di tutela e, soprattutto, di fruizione, significa entrare in un territorio i cui confini non sono ancora stati sufficientemente delineati. Il discorso poi si fa più intrigante se si concentra l’attenzione sul materiale bibliografico conservato negli archivi e nelle biblioteche italiane. Mi riferisco con più precisione a quei documenti e a quei libri, “vecchi” e “antichi”, che contribuiscono ad arricchire e a conferire prestigio all’Ente Pubblico ai quali sono affidati.

Va evidenziato che suddetto materiale è costantemente esposto al rischio di grosse perdite, poiché esiste una moltitudine di agenti esterni, che possono danneggiare il tesoretto conservato dalle Biblioteche. Cito, per esempio, l’usura del tempo, l’ambiente di conservazione mal climatizzato (umidità, calore, ecc), l’azione fotosensibile della luce, la polvere. Se poi ci aggiungiamo eventi straordinari, come incendi o alluvioni, la percentuale di rischio aumenta in modo esponenziale. A qualcuno è venuto in mente l’incendio della leggendaria Biblioteca di Alessandria? Ma anche episodi più recenti. Luglio 2022: la storica “Bancarella del Professore” di Piazzale Flaminio, Roma, subisce l’attacco di un piromane. Centinaia e centinaia di volumi andati in fumo. Certo, non era una biblioteca, ma per i frequentatori si trattava pur sempre di un’istituzione. E di esempi simili, nel corso della Storia, se ne sono verificati molti altri, purtroppo.

Aggiungo che, nonostante quello che si può immaginare, un libro antico (per convenzione si definisce antico un libro precedente al 1830), magari in pergamena, è più resistente rispetto a un libro economico del Novecento, stampato su carta riciclata. Anche quest’ultimo, tuttavia, deve essere salvaguardato, se non altro per tener fede all’Articolo 9 della nostra Costituzione:

«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. 

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. […]»

Questa lunga, ma doverosa premessa, si è resa necessaria per fornire un quadro generale sia della situazione conservativa in cui attualmente vessano i libri nelle biblioteche, sia dei rischi e pericoli in cui possono incappare se non si attuano delle politiche di tutela e conservazione riguardanti i beni culturali. A proposito di bene culturale, ho trovato interessante la dichiarazione di AICRAB – l’Associazione Italiana dei Conservatori e Restauratori degli Archivi e delle Biblioteche nata nel 2013, la prima, e attualmente l’unica, organizzazione in Italia il cui scopo principale è la conservazione del patrimonio archivistico e bibliografico del nostro Paese:

«La conservazione di tale componente del patrimonio culturale, solo in apparenza marginale, se da un verso è di fondamentale importanza per la nostra società, dall’altro costituisce una sfida di rara complessità. Basti soltanto rammentare come questa classe di beni culturali sia forse l’unica la cui fruizione si basa sulla sollecitazione meccanica del bene stesso.»

Quindi il libro antico è un bene culturale? Può sembrare strano, ma l’affermazione contenuta nella presentazione di AICRAB è un notevole passo in avanti, rispetto ai testi di biblioteconomia del Novecento in cui raramente si accenna al libro antico come a un bene culturale. Se lo intendiamo come tale, si devono quindi considerare una serie di implicazioni per la conservazione e la fruizione. Attenzione, apro una parentesi, perché non tutti i libri antichi, in effetti, lo sono, devono possedere delle caratteristiche. Ci viene in soccorso, ancora una volta, il Codice dei Beni culturali. L’articolo 10 definisce beni culturali «le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico» (comma 2, lett. c), nonché, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’art. 13, «le raccolte librarie, appartenenti a privati, di eccezionale interesse culturale» (comma 3, lett. c). E sempre l’art. 10, al comma 4, lett. c, chiarisce che tra i beni devono intendersi ricompresi anche «i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio».

Appurato che il patrimonio librario conservato nelle biblioteche è un bene culturale, possiamo affermare che le attività di conservazione e restauro, citate dall’AICRAB, sono il tentativo di lasciare in eredità ai posteri un materiale di valore di forte interesse culturale. Un patrimonio che per sua natura è soggetto costantemente alla “sollecitazione meccanica” e che rispetto ad altri beni necessita di più interventi di restauro (legature che si allentano, colle che si staccano, pagine che si strappano, ecc). Il tutto perché altri ne possano godere. Ma chi sono questi altri? Più avanti sempre sul sito di AICRAB si legge:

«E d’altra parte che senso avrebbe conservare una collezione libraria o un fondo d’archivio reso inaccessibile agli studiosi? Esso, per ciò stesso, perderebbe la propria ragione d’essere. La sfida è tutta qui: rendere fruibile un patrimonio imponente per qualità e quantità e, al tempo stesso, fare sì che anche coloro che verranno dopo di noi possano goderne appieno.»

La sfida è tutta qui. Gli studiosi e i ricercatori continueranno a godere di quei beni. Un gruppo ristretto. Ma gli altri? Mi riferisco per esempio ai lettori occasionali, ai privati cittadini. A loro è interdetto l’accesso a tali fondi? Purtroppo, il più delle volte è così, nonostante si stia parlando di beni culturali e quindi, in linea teorica, accessibili a tutti. La vera sfida, in realtà, sarebbe ripensare all’idea di biblioteca, non più di sola conservazione (gli enti che conservano i fondi antichi), non più solo pubblica (specializzata nella contemporaneità e più divulgativa), ma qualcosa di altro, che potrebbe coniugare queste due anime che all’apparenza non comunicano tra loro. Per una riflessione più accurata bisognerebbe prendere in esame anche le risorse economiche che passa lo Stato, la specializzazione e il percorso formativo dei bibliotecari, nonché una migliore organizzazione del personale e gestione della struttura bibliotecaria. Tanti aspetti, molti dei quali tecnici e burocratici, che non tratteremo in questa sede. Per semplicità riporto un passaggio sulla definizione di biblioteca di conservazione e di biblioteca pubblica contenuto nell’esauriente articolo di Berardino Simone, La “sfida” dei beni culturali. Dalle biblioteche di “conservazione” alla “Biblioteca Pubblica”, pubblicato su Bibliothecae.it

«Capire cosa la biblioteconomia e i bibliotecari italiani intendano oggi per “biblioteca pubblica” […] è fondamentale per capire cosa si pretende che non sia la biblioteca “di conservazione”, e per comprendere le pratiche vessatorie verso il lettore che vorrebbe accedere al nostro patrimonio librario così strumentalmente custodito. Quando biblioteconomia e bibliotecari affermano che per definizione la “biblioteca pubblica” ha libri contemporanei o divulgativi, “per tutti”, ed è “aperta al pubblico”, intendono affermare che questo deve essere l’unico “tipo” di biblioteca (e di libri) liberamente accessibile per una “comunità”. La loro definizione acquista un valore prescrittivo, non è più soltanto una dichiarazione. La biblioteca “di conservazione”, invece, si vuole “pubblica” solo per il soggetto proprietario (lo Stato, dal quale si pretendono incondizionatamente risorse crescenti per nuovi concorsi per bibliotecario) ma “non pubblica”, ossia “di alta cultura” (nel posseduto). Quindi “non pubblica”, o “riservata” (nell’accesso), o “destinata” a particolari categorie di “studiosi”

La speranza, per quanto mi riguarda, è che si creino sempre più presupposti e momenti di discussione per riformare un’idea di biblioteca che sia effettivamente accessibile a tutti e non un privilegio di pochi. Con tutte le considerazioni del caso. Non è facile, me ne rendo conto, ma è necessario. 

Sul tema della conservazione mi tolgo un sassolino, perché anche i bibliotecari a volte sbagliano. L’idea ottocentesca di rilegare i libri la cui veste editoriale è logora, così da aumentare le possibilità di conservazione del contenuto, andrebbe rivista. Un esempio: in una famosa biblioteca milanese, la copertina della prima edizione “Zang Tumb Tumb” (1914) del poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti è stata “strappata”, perché rovinata, e il libro è stato poi fatto rilegare. Peccato che la stessa copertina sia una testimonianza dell’ingegno futurista e della tipografia che ha prodotto il volume. Un libro che, se ben conservato, sul mercato oggi vale intorno ai 2000€. Quello che è stato rilegato in biblioteca ha perso ogni valore commerciale, seppur mantenga sempre quello culturale. Qui però mi fermo perché significherebbe riaprire vecchie ferite, nonché diatribe secolari tra il mondo dei librai antiquari e quello dei bibliotecari.

Mi permetto solo un consiglio: se librai, bibliotecari e restauratori si unissero e parlassero a tavolino, ne beneficeremmo tutti. 

Marco Bosio

 

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