Non è il dove si arriva ma il perché si parte
Il rischio di naufragio è in ogni onda. Tuttavia, la filosofia affronta il mare da sempre, come se i flutti aiutassero a porsi i giusti interrogativi. Cos’è il mare? Unisce o separa? Facilitando i contatti, il mare accosta le diversità e media al contempo gli scontri: l’arcipelago è un insieme di individualità conflittuali. Da sempre il mare presta le proprie rappresentazioni ed il proprio linguaggio alla filosofia, al punto che è difficile distinguere, tra mare e pensiero, chi ha scoperto l’altro: “Per navigare bisogna inventare il mare, bisogna cioè inventare la dimensione liquida solcabile, che consenta la navigazione. La filosofia occidentale ha inventato il mare. Tutte le navigazioni pratiche dell’Occidente sono possibili nel mare e dal mare”. Il mare è un grande e potentissimo catalizzatore di passioni. Di una soprattutto: la paura. Sul mare smisurato l’uomo si è messo, agli inizi, per necessità. Nessun tuffo liberatorio, nessun viaggio per il viaggio. Spesso, investendo l’elemento marino delle angosce e dei timori più reconditi: in mare aperto si è esposti sempre all’altro, come rivelano anche due tra le principali metafore marine, il naufragio e la deriva.
Partendo da queste riflessioni è lecito chiedersi se Ulisse, l’eroe epico di Omero, durante il suo lungo viaggio di coraggio verso casa, abbia visto realmente le affascinanti e pericolose Sirene o le abbia solamente sentite. Ecco il coraggio dell’uomo eroe per affrontare il pericolo del viaggio in mare per raggiungere un motivo di vita, un ideale: il focolare ma soprattutto, il mistero dell’ignoto. Legato all’albero della nave, Ulisse è stato l’unico ad ascoltarle davvero e a rimanere vivo. Sappiamo che ai propri marinai tappò le orecchie con la cera. L’unica imbarcazione ad aver navigato con successo prima di loro lungo le rive dell’isola delle Sirene era stata la mitica nave Argo con i propri eroi, come ce ne rende conto Apollonio Rodio. Sia l’Ulisse dantesco che Achab perderanno la vita in mare, travolti…dal desiderio che spinge l’uomo a volere beni che non risultano mai soddisfacenti.
Dall’incontro con il mare possono derivare forti spinte verso il potenziamento della personalità e che la navigazione rappresenta un grosso incoraggiamento per la costruzione di un carattere forte e sicuro e una stimolazione all’utilizzo di energie costruttive interiori e di risorse proprie. Ritrovarsi in mare per l’uomo, significa avvicinarsi anche alle profondità della sua stessa anima e prendere contatto con le proprie emozioni più vere. Perché il mare simboleggia l’inconscio: il mare è spazio ignoto; il mare è imprevedibile; il mare mostra una superficie ma ha profondità vitale e inquietante. Inoltre in barca si pone una continua attenzione al proprio corpo e al mantenimento dell’equilibrio in uno spazio in continuo movimento. Questa attenzione coinvolge e stimola tutti i sensi che in mare sono potenziati e immersi in un ambiente naturale. Vi è la possibilità nel navigare di usare il proprio corpo e riscoprirlo in quanto strumento principale per ascoltare il vento e decidere la rotta da seguire. La conduzione e il governo di una nave attraverso il mare, e condizioni atmosferiche a volte sfavorevoli è un’esperienza unica e davvero propedeutica per rinforzare la propria autostima e il grado di soddisfazione autopercepita. Timonare una nave diventa un po’ timonare se stessi attraverso la vita. La navigazione rappresenta quindi un utilissimo contesto di “qui ed ora” in cui l’individuo mette alla prova se stesso, prende decisioni e si confronta con problemi da risolvere e con situazioni improvvise ed impreviste, esegue degli ordini e fa delle scelte in rapida sequenza, tutto in vista di un obiettivo comune: arrivare alla meta desiderata. Ulisse, questo navigatore ardito e inesausto che percorre l’ampiezza interminabile dello spazio l’uomo intelligente che vuole misurare con il proprio acume tutte le cose, che, spinto da una curiosità irrefrenabile, giunge sulla soglia del Mistero.
La novità principale del mito dantesco, il suo elemento di maggior fascino, è la rappresentazione tutta positiva dell’impeto del cuore umano, della sua tensione a comprendere il significato dell’esistenza, a penetrare l’ignoto. Infatti, nonostante tutti i limiti che la natura strutturalmente pone a questo desiderio, la ragione non rinuncia a voler conoscere il Mistero. In tutte le letterature antiche non si trova niente di paragonabile all’Ulisse dantesco. “ Il mito antico”: Ulisse ed Icaro. L’Ulisse antico a un certo punto si era fermato sulla sua isola, Itaca. Terminata la guerra di Troia, durata dieci anni e vinta grazie allo stratagemma del cavallo escogitato proprio da Ulisse, l’eroe aveva ripreso il mare, dopo infinite avventure, infinite sofferenze.
Ulisse riesce ad abbracciare la moglie Penelope, il figlio Telemaco ed il vecchio padre Laerte. L’eroe, che ha vinto la guerra ed il mare, che, spinto da una curiosità irrefrenabile, ha percorso il mondo in cerca di un significato, approda infine ad una meta, la casa, simbolo della pace ritrovata e di una risposta in cui si risolve l’inquietudine del suo vagare. Ora può finalmente riposare. Nonostante la patria raggiunta e gli affetti più cari, Ulisse non riesce a sfuggire al tempo che vince e divora ogni cosa. “Ma il tempo vince ogni volontà e pretesa di autonomia e blocca ogni tipo di violenza. Il tempo infatti può essere considerato come una violenza che sull’Ulisse antico vince catastroficamente, inevitabilmente: tutti i divi dell’antichità, infatti, sono uccisi, mentre l’unico che se l’è scampata è stato Ulisse, ed è morto vecchio. Ma per un uomo così irrequieto, che ha girato tutto il mondo, quale umiliazione più grande, quale catastrofe più grande che quella di morire vecchio, bloccato nella sua isola!”, quindi il desiderio dell’eroe di attraversare il mare viaggiare per conoscere per dimenticare i propri affanni i propri dolori affrontando il fascino del mare che abbraccia tutti con la sua illimitata infinità. L’uomo però deve imparare a tenere a freno il desiderio e ridurlo nella sua portata, se non vuole incorrere nella punizione divina. La saggezza antica insegnava a non ambire a mete superiori alle proprie forze, a non infrangere il limite stabilito dagli Dei per l’uomo. L’Ulisse dantesco rappresenta il superamento di questa saggezza. Ciò che anima l’Ulisse dantesco è una sete bruciante di conoscere tutto. Dante la chiama “la sete natural che mai non sazia”, parlando di sé nel XXI Canto del Purgatorio. Una sete naturale che non riesce ad essere saziata. Un imperativo a cui l’uomo non può rinunciare se non venendo meno alla propria natura. Si tratta di un desiderio scoperto nel cuore, “dentro a me”, dice Ulisse, che non può essere arrestato e tacitato nemmeno dagli affetti più cari. Per questo Ulisse riprende il mare. Su un’unica nave insieme ai pochi e fedeli compagni rimastigli accanto, Ulisse percorre le coste del mondo allora conosciuto. In breve, il Mediterraneo è ormai esplorato e lasciato alle spalle.
Anche questa meta si rivela piccina, incapace di placare una sete che nel frattempo si è fatta più grande. Tre versi soltanto bastano ad Ulisse per riassumere anni di viaggi e di avventure. Tuttavia resta quella sete martellante. Ulisse sorprende per la sua audacia, che è in realtà coerenza con la propria natura d’uomo. Egli intuisce che il limite non può essere l’ultima parola, che ciò che ha cercato per tutta la vita, la verità definitiva che il suo cuore presente, deve esistere al di là del tutto.. È per quel cuore che l’uomo, la figura dell’uomo si libra negli spazi e il tempo e lo spazio non sono solo tomba, ma anche spunto per uno slancio. Ulisse ubbidisce ad una legge, perché è il sangue stesso che contiene in sé il sale dell’oceano. L’inizio del viaggio è già dentro il sistema dei vasi sanguigni, il sangue è planetario, solare, salato. Ulisse dunque decide di proseguire ed inoltrarsi nell’oceano infinito, questa è l’immagine che dà corpo e sostanza narrativa all’ardore dell’eroe, ne rivela tutta l’inesauribile portata. La meta di Ulisse, dell’Ulisse dantesco, infatti, non è più Itaca, la sua isola, ma l’oltre misterioso nel quale si trova il significato dell’esistenza. Dunque ecco gli aspetti della tracotanza umana nel voler penetrare l’ignoto: questo è il tratto più vero dell’uomo, questa nostalgia dell’origine che anima tutti i suoi atti , una sete che è creata insieme con l’uomo stesso.
Tutto in Moby Dick sembra essere fuori dal tempo e dallo spazio: la caccia sembra non finire mai, il Pequod veleggia sulle acque di oceani senza fine, tutto sembra muoversi e stare fermo allo stesso tempo. Tutto il libro parla di avventura, di ricerca, e di fede: la follia tragica di Achab sembra rievocare invece gli eroi antichi, contrapposti ad un destino avverso, che si ergevano orgogliosamente sotto un cielo privo di dèi. Achab presenta tutte le caratteristiche peculiari dell’eroe tragico; faustianamente egli trascende la propria condizione deciso a perseguire il suo scopo fino all’estremo, condannando se stesso e i suoi marinai all’annichilimento della ragione e della morte, la sua è una lotta di demoni, dove l’accanimento si specchia nel corpo straziato e nell’anima ferita e persino nell’incuria, dove il viaggio persegue la sua specola di tappa e il suo dramma. Poco dopo la baleniera punta a sud e raggiunge l’Equatore. Qui Achab è convinto che si trovi la Balena Bianca, il mostro che lo ha reso «balordo e incavigliato» e che ha dato origine alla sua ricerca, all’opposizione verso un tempo sconosciuto e reale che si accanisce.
Vuole possedere quella creatura che, come scrive Pavese, «assomma in sé la quintessenza misteriosa dell’orrore e del male dell’universo». Quarant’anni di privazioni e di pericoli e di tempeste! Quarant’anni sul mare spietato! Per quarant’anni Achab ha abbandonato la terra tranquilla, per quarant’anni ha combattuto sugli orrori dell’abisso! La pazzia, il delirio, il sangue in fiamme e la fronte bollente, con cui in migliaia di discese il vecchio Achab ha dato la caccia furiosa, schiumosa, alla preda, da demonio più che da uomo…Achab è l’icona dell’uomo della modernità, deluso dall’arroganza dell’antropocentrismo.
Ogni giorno tutti noi – umani e contemporanei Argonauti – navighiamo attraverso i mari per diventare diversi da come eravamo quando abbiamo lasciato la riva, la misura eroica ci ricorda quello che ogni viaggiatore dovrebbe sapere. Qualunque meta non è mai il punto di arrivo, ma è innanzitutto il punto di svolta: il senso di qualunque scelta, di qualunque viaggio, non è il dove si arriva, ma il perché si parte.
Maria Ragionieri