L’evoluzione storica dell’Abruzzo usi costumi e tradizioni

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Storie di cittadine e storie di popoli

Una regione multiforme e geomorfologicamente complessa come l’Abruzzo di fine Settecento, le cui province erano considerate territori ai margini di un governo castrante sia da un punto di vista fiscale che feudale e versavano in uno stato di totale dipendenza dal forte potere statale, e se da un lato l’Abruzzo si era sempre delineato come “area di transizione” fortemente connotata da fenomeni quali la pastorizia, l’emigrazione, l’isolamento, il conservatorismo contadino, l’arretratezza e la transumanza, dalla lettura delle carte galantiane ne vien fuori l’immagine di un luogo in cui eventi quali la “devoluzione” e l’allodizzazione”, ossia il rientro in demanio nel 1757 del più potente feudo del Regno, quello degli Acquaviva d’Atri, avevano portato all’affrancamento dai vincoli del territorio alla pastorizia transumante e a particolari privilegi feudali connessi con la locale coltivazione e commercio del riso. Le province abruzzesi iniziarono, grazie all’opera dei fratelli Delfico e alle proposte innovative dei riformisti moderati, come Galanti, ad interagire con l’idrocefala capitale divoratrice di risorse e talenti, e a far sentire la propria voce pregna delle nuove spinte propulsive di rinnovamento del sistema agrario, fiscale e doganale del Regno. E anche se bisognerà attendere il 1803 per giungere ad una completa eversione della feudalità, sarà proprio con Galanti e con il gruppo dei Delfico di Teramo che l’ostilità abruzzese verso i privilegi feudali ed ecclesiastici e i pascoli protetti, diventerà denuncia aperta, accelerando il processo di ammodernamento della società.

“È la natura stessa che presso di noi che dovrà decidere dell’uso delle terre, non solo perché la fertilità è più decisa per la coltura, che per la spontanea erbificazione del suolo, ma anche perché, della qualunque sia superficie del Regno, non è certo la maggior parte quella che si presta alle molteplici cure dell’uomo nella variata agricoltura. Or il vedere che nelle province di Abruzzo questa parte più propria, ch’è in assai piccola quantità, è appunto quella che gli è sottratta, non ci può far giudicare molto favorevolmente del buon senso e della saviezza dei pretesi stabilimenti… DELFICO. “

Molteplici interessi che hanno mosso nel tempo la penna degli scrittori abruzzesi, in concomitanza con l‘evoluzione storiografica e culturale italiana. Nel corso del Cinquecento la tipologia che tende a prevalere, in linea con l‘andamento generale riscontrato nella penisola, è quella delle storie cittadine: gli eruditi abruzzesi circoscrivono le proprie ricerche entro lo spazio urbano, impegnati ad esprimere un radicato senso di appartenenza alla propria città e decisi quindi a celebrarne la grandezza passata e – seguendo una linea consequenziale – quella presente, garantendo così alla propria comunità un confronto storico e culturale con gli altri centri italiani, all‘Aquila la riflessione sul concetto di patria cittadina era stata avviata con largo anticipo sul panorama della cronachistica meridionale, grazie ai sonetti politici di Buccio di Ranallo, redatti tra il 1355 e il 1363. A un secolo circa dalla fondazione della città, il poeta aveva ripercorso i momenti salienti della storia aquilana, stimolato dalle particolari vicissitudini che negli ultimi anni avevano coinvolto la comunità, e cioè la lotta per il predominio tra le famiglie più potenti, il suo contributo non rimase isolato e nel corso dei due secoli successivi numerosi epigoni incrementarono il corpus delle cronache aquilane, a partire da Niccolò da Borbona,  Alessandro de Ritiis e, in ultimo, Vincenzo di Basilii di Collebrincione, che interruppe la narrazione al 1529. Per i letterati aquilani di Antico Regime il confronto con questa importante produzione – prevalentemente medievale – fu un passaggio obbligato: essa rappresentava un unicum nel panorama meridionale e testimoniava quanto fosse radicato il senso di appartenenza alla comunità da parte della cultura locale. Ai primi del 500 la memorialistica aquilana fu chiamata a vivere una nuova stagione, dettata dall‘ennesima dura prova inflitta dal dominatore di turno, il governo spagnolo. Parallelamente, anche le altre città abruzzesi si prepararono ad esibire il proprio contributo erudito, dal momento che l’elite si stava appropriando degli spazi politici e religiosi e si costruivano modelli culturali tali da consolidarne il potere; le storie cittadine divenivano allora la prova evidente di una continuità tra le glorie del passato e la prosperità del presente. La provenienza socio-culturale degli autori delle storie cittadine e delle altre storie locali non può che essere in prevalenza aristocratica, e rimane tale fino al tardo Seicento e ai primi decenni del secolo successivo. Dopo aver narrato le origini mitiche della propria città, facendo riferimento a storici e geografi della classicità, ciascun autore illustra le vicende storiche locali, preoccupandosi di porre in evidenza la mai sopita fedeltà del governo cittadino nei confronti del monarca, al di là dell‘evoluzione politica del Regno e del succedersi delle diverse dinastie regnanti. Non bisogna dimenticare, inoltre, che più di un autore ha redatto le memorie patrie in forma poetica, presentando una carrellata di immagini legate alla fondazione mitica della città, agli eventi che hanno segnato in maniera determinante la memoria collettiva e a quei cittadini illustri che hanno contribuito a rendere grande il nome della propria patria, dunque, nell‘avanzare delle epoche cambiano il clima intellettuale, il linguaggio nei testi, l‘approccio critico, le circostanze storiche, ma le storie di città continuano a rappresentare un‘arena letteraria in cui si discutono le questioni legate al predominio politico dei gruppi sociali e all‘espressione delle loro identità. Allo stesso tempo, nel corso del Settecento altre figure sociali si accostano allo studio della storia locale. L‘antica nobiltà è interessata da un processo di progressiva estinzione dei casati, si pensi agli Acquaviva ad Atri o ai Cantelmo a Popoli, e cede ora il passo al nuovo ceto civile che, grazie alla cultura acquisita durante la formazione giovanile, generalmente conseguita nella capitale partenopea, e legato ai circoli culturali del tempo, si cimenta con passione nella compilazione delle memorie della propria città d‘origine.  

Ma già a partire dalla prima metà del Seicento, emerge negli eruditi abruzzesi l‘esigenza di estendere la propria ricerca al di là delle mura urbane, perseguendo una visione d’insieme che consenta di collocare il passato della propria città in un quadro storico-geografico più ampio. Accanto alle tradizionali storie di città fanno, quindi, a poco a poco il loro ingresso in questo filone della memorialistica altre tipologie di scrittura, in primis quelle che abbiamo definito ―storie di popoli. Protagoniste di questi testi sono, infatti, le genti italiche, che vissero nella regione sin dall‘età preromana. Esse tornano ad imporsi all‘attenzione degli eruditi locali, i quali identificano in quella storia l‘immagine originaria cui fare riferimento nella costruzione della memoria collettiva. Le élites cittadine conoscono a fondo queste tradizioni e si dichiarano eredi di quel passato glorioso, che può solo inorgoglire la propria comunità. 

I loci storico-letterari, in cui gli autori della latinità avevano fotografato l‘immagine valorosa dei Marrucini, dei Peligni, dei Pretuzi, dei Vestini, dei Marsi, dei Frentani e degli altri popoli italici, non erano passati nell‘indifferenza agli occhi di coloro che, nel risveglio umanistico degli interessi per la cultura classica, avevano ispezionato minuziosamente la produzione storico-geografica degli auctores latini. Quegli stessi passi continuano a costituire il filo rosso che ancora avrebbe attraversato e sorretto la maglia narrativa di gran parte della memorialistica moderna, sia nella produzione locale delle numerose città abruzzesi e altrettanto nelle historie generali del Regno di Napoli. I contributi più significativi sono individuabili all‘avvio della seconda metà del XVII secolo. In queste opere, la lettura dei testi epigrafici rinvenuti proietta lo sguardo dello storico verso il territorio adiacente, oltre che sulla propria città, e la rappresentazione prende forma attraverso la descrizione di luoghi antichi e moderni, di città distrutte, sepolte e riportate alla luce e di piccole e grandi comunità ancora esistenti, tratteggiate nella loro evoluzione tra passato e presente, che conservano ancora nella toponimia le tracce della storia italica. La Guerra sociale rappresenta un evento di grande solennità in queste terre, ciò amplifica il significato del conflitto e il valore del popolo peligno e degli altri popoli italici fedeli all‘impegno comune, e gli storici abruzzesi non si sottraggono al compito di sottolinearne l‘importanza per quel momento storico e per i posteri che vi guardano con rispetto e solennità: «Tra li popoli gloriosi d‘Italia molto celebri furono li Peligni, non tanto per la bellezza del sito, quanto per le nobili, et antiche loro città, e molto più per il valore di tanti Heroi che fecero di loro medesimi risonare la fama, non meno sullo studio strepitoso dell‘armi, che nell’otioso combattimento delle lettere». Nei secoli successivi nuovi protagonisti della scena culturale della regione e del Regno si accostano allo studio delle origini italiche delle comunità abruzzesi grazie al nuovo approccio critico che interessa gli studi antiquari ed epigrafici. In aperto confronto con le scelte metodologiche adottate nel resto della penisola, questi eruditi verranno riconosciuti come precursori della storiografia tardo settecentesca.

 In particolar riguardo sono da tener presenti i manoscritti piuttosto interessanti sui costumi abruzzesi in generale e su diversi aspetti di quella provincia da poter collazionare con alcuni passi della Relazione sull’Abruzzo chietino, dove si afferma che: “Gli Abruzzesi nel generale sono ostinati, ma ospidalieri e civili. Sono rissosi ed indocili agli ordini del governo” ma il Galanti afferma anche che gli Abruzzesi godono di un ottimo carattere morale perché nascono sotto un “dolcissimo governo” e per lo più in disciplina, ed essendo addetti ciascuno alla corrispondente industria secondo il proprio grado, sono generalmente docili di costumi, cordiali, di buona fede, perseveranti e amici dei forestieri, portati a beneficare ed inclinati alla fatica e dice: “Il clima freddo e rigido dà vigore al corpo ed all’anima. Sembra che gli uomini perdano di attività a misura che il sole l’acquista…Il contrario abbiamo veduto non essere avvenuto nell’Abruzzo. Queste disposizioni della natura formano la base del carattere degli Abruzzesi. Essi sono ben fatti della persona più degli altri abitanti del Regno. Nelle montagne specialmente hanno alta e robusta la fattura. Nel generale sono forti di temperamento, floridi di viso. Quasi da per tutto sono pazienti della fatica e poco curanti delle avversità, fermi ed anche ostinati nelle loro cose, frugali, attivi, umani, coraggiosi.” Quest’ultimo aspetto, quello del coraggio che rende gli abruzzesi ostinati e volitivi nel raggiungimento dei propri obiettivi, è attributo da Galanti al fatto che i loro avi abbiano per lungo tempo combattuto con valore e con gloria ora contro ed ora a favore dei Romani. Lo sostiene l’Autore rimarcando anche l’indiscusso spirito di famiglia degli abruzzesi che disertano il servizio militare solo per recarsi a casa propria. In generale il popolo degli Abruzzi è descritto come un popolo povero, ma di una povertà che non è mendicità né accattonaggio e che porta ad una mancanza di ozio, ma allo stesso tempo ad una scarsa coltura nelle scienze, nelle arti, nell’agricoltura e nella pastorizia, soprattutto a causa della scarsezza di buone istituzioni. La povertà generale e l’assenza di dote sono poi riconosciute come cause principali del fatto che le donne abruzzesi mantengono una perpetua vedovanza. Dal momento che amano la fatica, quasi dappertutto le donne sono impiegate nei lavori campestri, mentre quelle di città sono dedite all’economia domestica e a lavorare con ago e filo, a differenza delle nobili che non coltivano lo spirito e si dedicano a frivoli piaceri, indossando fogge di vestiti singolari per antico costume e così le descrive il Galanti: “ Le donne nelle montagne sono belle e rubiconde, ma nei luoghi bassi sono per lo più pallide. Hanno regolari i tratti del viso e graziosa n’è la fisionomia. Nel generale sarebbero vaghe se la miseria ed i disagi non influissero sulle loro fattezze, che ne restano alterate. L’agiatezza sola è quella che dà tutta la superiorità della bellezza delle marchegiane sopra le abruzzesi….”.

Il quadro globale delle osservazioni su caratteri e costumi degli abruzzesi sfocia a questo punto in altre osservazioni rivolte all’età ordinaria dei matrimoni che è riconosciuta negli uomini a venticinque anni e nelle donne a venti, e mentre nei monti e nei piccoli villaggi i costumi si mantengono ancora puri, nelle città e nelle Maremme grande è la prostituzione anche nei piccoli paesi. Un discrimine è dato però dalla vicinanza dello Stato Pontificio all’Abruzzo che rende la morale dei suoi abitanti assai diversa da quella della restante popolazione del Regno. La città di Teramo è ad esempio pregna di spirito papalino, anche e soprattutto per l’educazione che molti abruzzesi ricevono nei seminari dello Stato Pontificio, in seguito alla temporanea emigrazione degli abitanti delle montagne. La cultura degli abruzzesi è quindi presente più nelle maniere che nello spirito e, mentre lungo i confini dell’Aquilano si parla l’italiano meglio che in ogni altra provincia del Regno, soprattutto perché dolce ne è l’accento grazie anche all’influsso del linguaggio della vicina Sabina e dell’Umbria, pregio che potrebbe dare gran risalto alle bellezze aquilane, sì da farle assomigliare alle senesi, piuttosto fastidioso si rivela l’accento delle zona chietina e teramana, corrotto dal linguaggio della confinante Marca. Pochi sono i ricchi e i nobili della provincia, ed essi per lo più si ispirano ai modelli della capitale, mentre la gioventù nobile e civile dei più grandi paesi è maggiormente occupata in giochi e frivoli abbigliamenti.

 Da non trascurare l’allusione all’uso abruzzese di “abitare per vichi”, usanza che fu dei popoli primitivi e che iniziò a decadere sotto l’impero romano e fare un cenno alla presenza di case rurali, dette masserie, agli Stucchi e alle fosse per la conservazione del grano nell’Abruzzo marittimo: “L’Abruzzo marittimo ha molte case rurali dette masserie. Queste abitazioni campestri si veggono in maggior numero dove l’agricoltura è libera e dove le terre sono bene coltivate; sono assai rare dove le terre sono soggette a servitù, come si vede dove si trovano gli Stucchi”.

Maria Ragionieri

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