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Il divario tra Nord e Sud in Italia

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Il divario tra Nord e Sud in Italia

L’Italia prima dell’Unità era più povera delle altre potenze Europee ma non vi era sostanziale differenza fra Sud e Nord, anzi, il Sud stava crescendo a dismisura e portando innovazioni e cultura. Alla unità territoriale dunque non corrispose una unità economica che si sarebbe dovuta avviare con l’industrializzazione rimasta localizzata al Nord. L’Italia unita nacque quindi con un ingente debito pubblico e con disavanzi perenni nei conti dello stato che saranno alla base di un problema che sarebbe durato oltre 150 anni. Certo non era facile mettere insieme ben sette stati diversi che non condividevano né storia, né cultura, e che avevano un sistema economico e tributario totalmente diverso. Con l’Unità, si sperava forse di estinguere il debito che Vittorio Emanuele aveva creato per sviluppare le proprie provincie ed affrontare le tre guerre d’indipendenza. Lo studio del divario ci porta a concludere che solo nella fase storica della golden age si è registrato un vero processo di convergenza tra le due aree del paese. Il Meridione non poteva o meglio non doveva farcela da solo a recuperare il tempo perduto, intervenne così, frutto della lungimiranza e dell’amore per il proprio popolo l’intuizione dei nuovi meridionalisti che portò alla creazione della cassa del Mezzogiorno. La Cassa del Mezzogiorno fu da una analisi storica a quasi trenta anni dalla sua scomparsa un elemento propulsore fondamentale per la rinascita del Sud. La convergenza della golden age grazie al miglioramento delle condizioni del Sud portò con sé anche il miglioramento delle condizioni del Nord.  Orientamenti attuali vedono una Italia post unitaria con condizioni assimilabili tra il nord ed il sud dal punto di vista del pil e dello status economico, come se al punto zero di partenza della nuova nazione, non esistesse alcun divario o comunque fosse minimo. Scelte politiche, condizioni ambientali, socio-culturali, nel periodo successivo all’ unità, hanno condotto all’allargamento della forbice, facendo del Sud una macro area sostanzialmente più povera rispetto al Nord. Differenze, anche profonde, esistevano fra le regioni del Nord e quelle del Sud già alla data dell’Unità. Dunque riepilogando, quella che si sperava essere un’Unità sognata dai Risorgimentali, si rilevò essere un’Unità geograficamente e politicamente unita, ma economicamente e socialmente disunita. Per affrontare i gravi problemi economici conseguenti all’Unità si decise di optare per un governo fortemente accentratore, che significò estendere anche al Sud il sistema legislativo e tributario del Nord, senza tener conto dei divari sociali e strutturali fra le due parti del paese. Questo significò grosse difficoltà per il Sud durante il processo di industrializzazione del Paese con un ristagno dell’agricoltura che poteva essere fonte di ricchezza.

 Un vero e profondo divario economico si presentò soltanto a partire dall’industrializzazione del paese, che viene oggi collocata negli anni Ottanta dell’Ottocento. Dunque il processo di industrializzazione che si è originato al nord ovest del paese, nel così detto triangolo industriale, investe molto più in ritardo e con estrema lentezza le regioni del Sud e determina una netta differenza tra le due macro aree che è destinata a perdurare fino alla seconda guerra mondiale. La disuguaglianza di reddito è infatti bassa in un paese sostanzialmente povero. La ricchezza concentrata nelle mani di pochi fa sì che non si crei una classe media ed il capitale non venga investito in opere produttive ma sia fermo in terre ed immobili, questo spiega la sostanziale uniformità del pil all’atto dell’unità, prima dell’espansione industriale. Che la società italiana fosse definibile dualistica, con altre parole, che tra Mezzogiorno e il resto del Paese vi fosse un divario rilevante nelle condizioni di vita economiche e sociali, sono enunciazioni che non hanno mai suscitato obiezioni. Correnti di pensiero definibili meridionalistiche si formano, può ben dirsi, in modo deciso subito dopo l’unificazione politica del nostro Paese. C’è tra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione e quindi per gli intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il modo intellettuale e morale.

 Quindi, come già detto, gli anni successivi all’unita fino alla grande guerra vedono un graduale aumento della disparità in termini di crescita con un meridione che stenta a tenersi al passo con il settentrione con aumento notevole della divergenza tra le due macro aree. Il fenomeno prosegue fino al dopoguerra per effetto dello sviluppo costante delle aree del Nord e della politica economica nazionale, nonostante il Mezzogiorno fosse stato il primo nella realizzazione dei tronchi ferroviari, dopo l’Unità lo sviluppo si fermò, incrementandosi invece al Nord dove per costruire le ferrovie si avvalsero dell’industria meccanica del Sud e in particolare di quella di Napoli. La necessità di realizzare al Nord linee ferroviarie fu data dal semplice fatto che per commerciare l’unico modo possibile era via terra; diversa invece la realtà del Sud dove si privilegiava il commercio via mare.

Nel periodo successivo che va dalla ricostruzione postbellica alla crisi petrolifera del 1973 si ha il primo vero momento di convergenza tra le due macro aree con le regioni meridionali che si avvicinano sempre di più alla media nazionale con un alto tasso di crescita. Questa fase di crescita è dovuta alla industrializzazione del meridione che giunge con quasi ottanta anni di ritardo rispetto a quella del Nord. Il periodo successivo che va dal 1974 al 2009 tende ad allargare la forbice e vede una economia meridionale riallontanarsi dagli standard del Nord, Quindi la storia del divario tra alti e bassi esiste da 150 anni ed ancora è lontano il momento in cui lo stato avrà una economia uniforme in tutto il territorio nazionale. L’attuale crisi economica ha messo ancor più in evidenza il divario tra Nord-Sud, per colpa anche dei mancati interventi dei governi che si sono succeduti, la globalizzazione economica e dei mercati ha aggravato la situazione, trovando un Sud non solo impreparato, ma anche ormai privato di una prospettiva futura. 

Nell’ambito delle cause naturali una possibile risposta può essere la posizione geografica sfavorevole del Sud la ragione del suo restare indietro. Questa risposta si muove all’interno di un modello in cui, a partire da un centro iniziale, nel caso l’Inghilterra, l’industrializzazione si diffonde su linee di prossimità geografica: la mappa dell’industrializzazione, europea ed italiana, ricalcherebbe un criterio di contiguità territoriale, espandendosi dall’Inghilterra prima verso le zone più vicine e poi mano a mano verso zone sempre più lontane dall’origine. Secondo questo modello il Sud è naturalmente svantaggiato; il Nord-Ovest, sul finire dell’Ottocento, si è industrializzato perché più vicino all’Inghilterra: La Rivoluzione Industriale e l’industrializzazione sono avvenute in Inghilterra e poi nell’Europa occidentale. Se fossero avvenute in Africa, le cose per il nostro Mezzogiorno sarebbero state certamente diverse.

E’ evidente che se si guarda alla questione meridionale occorre tenere presente che non è al momento dell’unificazione che si presenta, ma ha radici nel secolo precedente, soprattutto per cause politico-economica del neonato Stato italiano di far fronte alle profonde differenziazioni dei territori annessi, sfociate nei fenomeni di brigantaggio nelle aree meridionali nell’immediato decennio successivo all’unificazione e, successivamente, in situazioni di grave disagio economico e sociale non facilmente imputabili univocamente ad una arretratezza preesistente.

Tipica dell’Italia, e molto più che per altri paesi europei, è la struttura specifica di queste disparità. Le regioni più povere d’Italia, a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, si trovano nel Sud. Tuttavia, una vera divisione nord-sud avvenne alla fine del diciannovesimo secolo, quando politici e intellettuali iniziarono a discutere le cause dell’arretratezza del Mezzogiorno: il cosiddetto dibattito sulla Questione Meridionale iniziato negli anni Ottanta del XIX secolo quando il ritardo nello sviluppo economico del Mezzogiorno divenne quindi una caratteristica centrale dell’economia e della società italiana. E’ nei primi anni Ottanta del XIX secolo, infatti che nella penisola cominciarono a farsi sentire gli effetti di quella crisi agraria che aveva investito l’Europa; l’Italia era ancora un paese arretrato ad economia prevalentemente agricola. La presa di coscienza dell’arretratezza del paese era cominciata a comparire nelle formulazioni di Antonio Gramsci e Emilio Sereni, due studiosi marxisti, i quali nel cercare le ragioni dei ritardi e degli squilibri persistenti nel nuovo stato unitario, posero alla base delle loro analisi il fallimento del Risorgimento come rivoluzione nazionale a ragione del mancato coinvolgimento delle masse contadine. Tuttavia un discorso storiografico improntato su di una prospettiva che tenesse in considerazione delle ricerche di teoria economica dello sviluppo più aggiornate sulla questione dell’arretratezza italiana si devono alla letteratura straniera. Gli spunti degli economisti stranieri sono stati sviluppati ed ampliati da un giovane storico, il Romeo, le cui tesi, volte a spiegare il problema dell’arretratezza del nostro paese, prendevano in considerazione anche il contesto socio – politico europeo. Intorno al 1850, lo storico sostenne che il processo di unificazione del nostro paese non sarebbe andato in porto se si fossero opposte le grandi potenze europee che non avrebbero mai accettato un mutamento così radicale nell’ordine sociale esistente. Su tali basi Romeo costruì un modello econometrico di sviluppo industriale che prendeva in considerazione l’importanza dell’accumulazione del capitale necessaria per avviare il processo di industrializzazione e realizzare un diffuso reticolo di infrastrutture economiche, senza le quali nessuna trasformazione economica sarebbe stata possibile. L’Italia era un paese povero di risorse e di territorio con una popolazione fortemente eccedente e priva di capitali. L’unico settore che produceva reddito e attraverso il quale sarebbe stato possibile mettere in moto un processo di accumulazione era l’agricoltura. L’arretratezza del paese non era però soltanto economica. Gran parte della popolazione era analfabeta, pochi erano quelli che disponevano di titoli di studio elementari e medi e pochissimi quelli che avevano frequentato l’università e che quindi disponevano di una laurea. L’istruzione pubblica era poco diffusa e mal distribuita sul territorio. All’interno della stessa borghesia molti erano i proprietari e possidenti che non sapevano né leggere né scrivere. Il motivo principale di tale carenza era l’onere finanziario necessario per la sua attuazione. Soprattutto nel Mezzogiorno non si disponevano i mezzi finanziari sufficienti. Nel complesso, in agricoltura non si era verificata nessuna “rivoluzione agraria” del tipo inglese o fiammingo e di conseguenza, nonostante notevoli differenze tra il Nord e il Sud del paese, essa non aveva fatto registrare alcun significativo progresso strutturale. Soprattutto nel Mezzogiorno non veniva ancora applicato alcun ciclo razionale delle culture e l’irrigazione, tranne alcune aree della pianura lombardo – piemontese, era completamente da impiantare. Tuttavia la produzione agricola aveva subito un notevole incremento per la forte richiesta di derrate alimentari provenienti dai mercati europei: in particolare, il forte sviluppo industriale che aveva investito l’Inghilterra a seguito dell’adozione della tariffa di libero scambio, aveva permesso l’aumento di esportazioni di prodotti agricoli italiani verso tale paese. 

In alcune zone della penisola si incominciavano a intravedere buone concentrazioni di capitali in agricoltura ed erano notevolmente aumentate sia la manodopera impegnata sia l’estensione delle aree coltivabili, ma vere e proprie imprese capitalistiche avevano fatto la loro comparsa in poche aree del paese. Persistevano, al contrario, ed erano ancora molto diffusi, antichi contratti agrari come la mezzadria e la colonia, molto gravosi per i contadini. Nel Mezzogiorno era esteso il latifondo e molte erano ancora le terre incolte. I terreni, a fronte di più razionali e moderne possibilità di sfruttamento, davano rese ancora molto basse a causa della persistenza di vecchie strutture agrarie e dell’inadeguata consistenza degli strumenti finanziari che rappresentavano una forte limitazione per la modernizzazione della struttura economica e per l’avvio dello sviluppo. Le carenze di infrastrutture erano allarmanti in tutto il paese, ma si presentavano particolarmente gravi nel Mezzogiorno e nelle isole. Nonostante l’Italia si sviluppasse su migliaia di chilometri di coste, il numero dei porti era modesto. Alcune aree del Mezzogiorno erano ancora più arretrate di quanto sia dato immaginare. La maggior parte della popolazione era concentrata nelle zone costiere del Sud della penisola, cosa che rendeva estremamente difficile il rapporto città – campagna a causa delle comunicazioni inesistenti. Il mondo contadino era stretto nella morsa dell’autoconsumo ed aveva scarsissimi rapporti con il mondo cittadino. Nel quadro generale, l’arretratezza dell’intero paese, la situazione del Nord era, nel complesso migliore. Nel Mezzogiorno, ad esempio, mentre il maggior sviluppo commerciale aveva incentivato un certo aumento della produzione, questo incremento intermedio si realizzava nel quadro di forme produttive in cui la figura del grande affittuario intermedio era dominante e, attraverso contratti di piccolo affitto o di colonia estremamente gravosi per il contadino a causa della bassa produttività e alla fortissima domanda di terre determinata dall’eccesso di popolazione rispetto alla produttività media per ettaro. Nel Nord, al contrario, lo stesso sviluppo commerciale andava ad incidere in una realtà più moderna caratterizzata da “rapporti agrari assai evoluti soprattutto nel piemontese dove già esistevano grandi imprese caratterizzate da rilevanti investimenti nell’allevamento di bestiame, attrezzi agricoli e mano d’opera salariata. Rispetto al resto dell’Europa, non si era avuta nessuna profonda trasformazione nei rapporti agrari, nel senso della tendenza alla universale razionalizzazione delle imprese capitalistiche. Se si era ottenuto qualche progresso in agricoltura, seppure in una cornice economica tendenzialmente arretrata, non si può dire lo stesso per le attività industriali. Il totale delle attività manifatturiere, per esempio, al momento dell’unificazione politica del paese, era in gran parte conseguenza dei vantaggi derivanti dalla conquista francese, malgrado gli Stati preunitari avessero tentato di fornirsi di un minimo apparato industriale. Molte attività industriali erano sorte proprio in virtù delle guerre napoleoniche, anche se a causa del blocco continentale, molte altre avevano subito gravi danni. In queste condizioni e a causa anche di una grave crisi dovuta a un repentino calo dei prezzi agricoli che aveva contribuito a restringere ancor di più il mercato interno, lo scarsissimo apparato industriale dei vari Stati era stato investito dalla concorrenza dei manufatti provenienti dai paesi industrializzati. 

Alla luce di tutto ciò, le priorità di politica economica andrebbero orientate verso nuovi obiettivi. Il vasto programma di riforme e investimenti delineato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza offre al paese l’opportunità di rafforzare questi ambiti, affrontando con il sostegno di mezzi finanziari significativi alcuni dei problemi strutturali che ormai da un quarto di secolo ne frenano la crescita. Il Piano riveste una rilevanza particolare per il Mezzogiorno, dove alcune delle criticità strutturali che riguardano anche il resto del paese si presentano in forma più acuta ed è questa l’occasione per un deciso miglioramento delle prospettive di sviluppo. 

Maria Ragionieri

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