Elogio del merito, attitudine alla verità

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La meritocrazia secondo l’epoca classica

Sì, in questa vita ognuno arriva con un fine da perseguire, è una ricerca costante, ed è probabile che non si riesca neanche a comprenderne fino in fondo il significato, né ad individuare lo scopo stesso. All’uomo la capacità di conoscere la sua propensione, ascoltarla attentamente, e una volta compresa, seguirla in modo incondizionato. Non si tratta di cieca ambizione, ma di attitudine alla verità. Straordinaria la soddisfazione derivante dalle azioni compiute secondo la propria inclinazione, nessuno sforzo nel compierle, facile come respirare, puro appagamento. È giustizia che si sublima in una tacita sensazione, corpo e mente che viaggiano all’unisono. La certezza di essere, meritatamente, in un luogo e in un tempo dilatati, non c’è un presente, non un prima e un dopo, solo continuità d’intenti. Un pizzico di incertezza, necessaria allo sviluppo personale, per poi rientrare in una dimensione famigliare, forme, colori, sapori e odori sono nitidi, nulla che non si possa conoscere, nessun ostacolo invalicabile. Un privilegio svolgere il compito per cui si è nati. 

Con abile artificio retorico e ricorrendo al mito dei metalli, Platone, attraverso le parole di Socrate, tenta di legittimare il principio della meritocrazia. In uno stato ideale, ad ogni uomo corrisponde un ruolo, che da principio è assegnato dal dio creatore, ma che nella discendenza, non può e non deve in alcun modo essere fisso, cristallizzato. Secondo quanto esposto da Socrate, il mentore deve saper comprendere le inclinazioni dell’allievo e indirizzarlo verso il compito più conveniente, per la collettività e per lo stato.

“Voi cittadini siete tutti fratelli, diremo loro continuando il racconto, ma la divinità, plasmandovi, al momento della nascita ha infuso dell’oro in quanti di voi sono atti a governare, e perciò essi hanno il pregio più alto; negli ausiliari ha infuso dell’argento, nei contadini e negli altri artigiani del ferro e del bronzo. Dal momento che siete tutti d’una stessa stirpe, di solito potete generare figli simili a voi, ma in certi casi dall’oro può nascere una prole d’argento e dall’argento una discendenza d’oro, e così via da un metallo all’altro. Ai governanti quindi la divinità impone, come primo e più importante precetto, di non custodire e non sorvegliare nessuno così attentamente come i propri figli, per scoprire quale metallo sia stato mescolato alle loro anime; e se il loro rampollo nasce misto di bronzo o di ferro, dovranno respingerlo senza alcuna pietà tra gli artigiani o i contadini, assegnandogli il rango che compete alla sua natura. Se invece da costoro nascerà un figlio con una vena d’oro o d’argento, dovranno ricompensarlo sollevandolo al rango di guardiano o di aiutante, perché secondo un oracolo la città andrà in rovina quando la custodirà un guardiano di ferro o di bronzo”. Repubblica, Platone, terzo libro.

Virginia Chiavaroli

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