La vita è il nostro progetto: nasce da un’idea, un’immagine, si disegna, si costruisce, così come un film
Sono sempre stata affascinata dall’idea che i nomi propri siano una sorta di impronta, un segno indelebile come un tatuaggio sulla pelle. Il nome ci distingue, ma noi non siamo quel nome. Noi siamo altro, siamo tutto e, quel tutto, è racchiuso in quel nome. C’è chi dice che non bisogna dare al nascituro il nome di un parente defunto, poiché si rischia di trapiantare nel nuovo nato un destino che non è il suo, ed è intorno a questa credenza che ho imbastito il mio romanzo d’esordio. Sono convinta che siamo venuti al mondo solo per realizzare noi stessi e non il desiderio di altri. Non dobbiamo assomigliare a nessuno, se non a noi stessi, dobbiamo cercarci, dobbiamo trovarci; le nuove generazioni sembrano esserne più consapevoli, libere dai retaggi di una mentalità arcaica permeata dal peccato originario, e dunque dalla sofferenza e dell’espiazione. Il film Coco della Pixar – Walt Disney ce lo ricorda grazie a Miguel, il piccolo protagonista che sogna di diventare un musicista, ma la sua famiglia lo obbliga a rimanere dentro le fila del suo destino, quello tracciato dalla famiglia stessa, che gli impone di lavorare nella ditta di calzature fondata dalla nonna, ma lui non ci sta, la sua passione è un forte richiamo.
Il mio nome deriva dal greco Aléxandros e significa “protettore degli uomini” ed io, caso o non caso, ho un carattere che tende a difendere chi ha bisogno, indistintamente; potrei quindi affermare che mi calza a pennello, oppure potrei azzardare l’ipotesi di averlo scelto prima del mio arrivo nel grembo di mia madre. E, addirittura, potrei aver scelto anche mia madre, e mio padre, ma anche le mie sorelle, tutto predeterminato con lo scopo di vivere determinate esperienze, anche quelle dolorose. Quindi il caso non esiste? Una risposta netta non credo ci sia, ma pensieri, filosofie, e anche religioni molto affascinanti, si, ci sono. Per citare uno studioso importante che cita un altro dotto, vi trascrivo un breve estratto da Il codice dell’anima dove si narra del mito platonico di Er:
<<Quando tutte le anime si erano scelte la vita, secondo che era loro toccato, si presentavano davanti a Lachesi [lachos, “parte, porzione di destino”]. A ciascuna ella dava come compagno il genio [daimon] che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto.>>
Nell’anima è contenuta l’immagine del nostro destino, e l’anima ha una guida, che appunto si chiama daimon. Come tutte le guide ha un compito essenziale, di indirizzare, accompagnare, ricordare, ed è così che il daimon ci conduce ad un particolare corpo, che nasce da quei genitori, in un determinato luogo. Tutto scelto prima della nascita, e quindi anche il nome a mio avviso, ma tutto viene dimenticato attraversando la pianura di Lete, la pianura dell’oblio.
Il grembo materno, la nascita.
Siamo attori protagonisti di un film che è la nostra vita; come ciechi non siamo in grado di vederlo ma lo percepiamo. Adagio adagio, seguendo quell’istinto naturale che ci accomuna, che ci spinge a vivere determinate esperienze e non altre, comprese quelle errate, riusciamo a scorgere il bastone… Allora, non più a tentoni, bensì con un appoggio (una guida), avanziamo intrepidi (come il piccolo Miguel) nelle scene della nostra vita. Potremmo dire che la vita è un progetto, il nostro: nasce da un’idea, un’immagine, si disegna, si costruisce, così come un film. E la teoria della ghianda dice che il daimon predetermina la madre poiché dotato di prescienza, ed è immortale, “nel senso che non ci lascia mai e non può essere liquidato dalle spiegazioni di noi mortali” spiega Hillman, ed aggiunge: “C’entra molto con i sentimenti di unicità, di grandezza, e con l’inquietudine del cuore, con la sua impazienza, la sua insoddisfazione, i suoi struggimenti” (ce lo mostra Miguel). Quindi perché scegliamo quella madre e quel padre?
Ognuno di noi deve immergersi nella propria vita per trovare le risposte o le vie di fuga. Si, vie di fuga, esattamente quelle che ci occorrono per fuggire da quei terribili condizionamenti che hanno minato la nostra felicità, offuscando nostri sogni (Miguel attraversa un ponte e sprofonda nel mondo dei morti). Prima di immergerci però, dobbiamo tener presente ciò che dice Hillman: “La fantasia dell’influenza dei genitori sull’infanzia ci insegue per tutta la vita, anche quando i genitori in carne e ossa sono da un pezzo ridotti a fotografie sbiadite, sicché gran parte del loro potere deriva dall’idea di tale potere”. E’ vero, può essere che i nostri sogni non siano stati spronati da nostra madre, può essere che nostro padre non si sia opposto alle limitazioni dell’altra o viceversa. E’ vero tutto, ma “Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare, e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la stessa di una vittima”.
Ora, avete il permesso di immergervi.
Alessandra De Angelis