
Siamo arrivati al terzo millennio dando alla comunicazione un’importanza mai attribuita prima: potremo addirittura sostenere che la nostra società è la “Società della Comunicazione”, eppure, nonostante viviamo perennemente immersi all’interno di questo flusso comunicativo, strada facendo abbiamo perso per strada il grande valore del dialogo, del confronto, dello scambio paritario delle nostre opinioni, della discussione senza preconcetti, convinti, forse, di avere solo noi “la verità in tasca”, quindi convinti che risulterebbe inutile metterla sul tappeto per confrontarla con quella degli altri.
Chi frequenta abitualmente i Social network tutta questa realtà la può toccare con mano tutti i giorni, tanto da arrivare alla conclusione che questa generazione ha perso la capacità di confrontarsi; restare chiusi all’interno delle nostre convinzioni è come applicare la politica dello struzzo che per non vedere gli altri nasconde la testa sotto la sabbia! Negarsi al dialogo è come chiudere nella propria casa porte e finestre, isolandosi dal mondo, anziché spalancarle, aprirle agli altri.
Il dialogo interculturale è uno strumento privilegiato, sebbene certamente non l’unico, della politica di integrazione. È attraverso il dialogo interculturale che si può giungere a un pieno rispetto dell’altro, dopo aver conosciuto le sue tradizioni e la sua cultura e aver imparato a non temerlo. Oggi la sua necessità si fa sentire tanto nel mondo in generale, quanto in seno all’Unione europea in particolare. In questo clima si è avvertita la necessità del dialogo interculturale per una molteplicità di motivi. Innanzitutto, come si è accennato, lo scambio di informazioni sulle reciproche culture, tradizioni e lingue permette una conoscenza più approfondita dell’altro e, dunque, lo si teme di meno. Il problema fondamentale, infatti, non è la diversità in sé, ma la percezione della diversità come minaccia. Il dialogo esige il rifiuto di una simile idea e l’accettazione dell’altro su un piano di parità. Diventa possibile, in questo modo, oltrepassare la barriera che ci fa vedere l’altro come un nemico. Il dialogo dovrebbe, di fatto, realizzare quella rivoluzione copernicana in grado di capovolgere il paradigma sociale, di far passare dall’esclusione all’inclusione degli altri. Il dialogo, in effetti, non è inteso a persuaderli o a convertirli, ma a ricercare la comprensione reciproca attraverso la condivisione dei valori. Il pensiero socratico insegna che gli uomini temono ciò che non conoscono e disprezzano ciò che sfugge alla loro comprensione razionale. Il filosofo greco utilizza il dialogo come strumento per la ricerca della verità, intesa come conoscenza dell’altro. Uno dei più grandi meriti del dialogo è, infatti, proprio quello di abbattere gli ostacoli fra gli uomini, di permettere loro di incontrarsi e di discutere, di unirsi, stimarsi e apprezzarsi. È quello che Emmanuel Lévinas chiama “l’Epifania dell’incontro”. Il filosofo lituano naturalizzato francese sottolinea, invero, l’utilità di unire il “sacro di sé stessi” con il “sacro dell’altro”. Imparare, ascoltare voci diverse, aprire e aprirsi nuove prospettive, riflettere sulle proprie convinzioni, scoprire un terreno comune di incontro e di accordo: sono questi gli obiettivi che il dialogo si pone. Senza di esso la competizione si trasformerebbe in una questione di dominio e il sistema degenererebbe in una pura lotta per il potere. È, dunque, essenziale per il funzionamento armonico e senza attriti della società. Le relazioni interculturali, concettualizzate nel corso degli anni ‘50, si sono sviluppate per qualche decennio in un contesto internazionale ottimista per poi dover essere ripensate sul finire degli anni 80. Per quanto riguarda il dialogo, gli anni ‘90 sono cominciati male, con la paura della diversità che ha assunto il volto odioso della pulizia etnica e delle guerre di religione. La preconizzazione dello “scontro di civiltà”, in particolare, ha portato a legittimare ogni tipo di conflitto, combattuto per le ragioni più varie, da quelle religiose a quelle umanitarie, e limitazioni dei diritti fondamentali. La necessità del dialogo viene imposta, quindi, dalla consapevolezza dei pericoli insiti nei conflitti fra civiltà e fondati su eredità ataviche. Le politiche di dominio vengono in questo modo rimpiazzate da politiche di comunicazione, di relazione, di negoziazione, d’integrazione e di collaborazione. Sono molti gli autori nella letteratura delle relazioni internazionali Majid Tehranian e altri che sottolineano la necessità del dialogo fra le culture, un dialogo che permetterebbe di smentire la previsione “apocalittica” dello “scontro di civiltà” e che provvederebbe una risposta multilaterale al nuovo fenomeno del terrorismo internazionale. Il dialogo interculturale, per tali autori, costituirebbe una reazione alternativa all’unilateralismo americano, Malmvig parla di una vera e propria funzione di securization svolta dal dialogo fra le culture, in grado di prevenire l’eventuale scoppio di conflitti fra le stesse. Il dialogo interculturale è, poi, particolarmente necessario al Vecchio Continente il dialogo e la cultura sono due concetti che si implicano mutualmente. L’essenza della cultura è il dialogo poiché lo stesso non può instaurarsi se non sulla base di un linguaggio comune o di una condivisa attitudine di spirito, di fatto gli elementi costitutivi della cultura. Il dialogo fra le culture, l’interscambio fra le stesse, a suo dire è sempre esistito. Tuttavia è stato dominato dal caso, si è organizzato in forma aleatoria, anarchica, spontanea, e ciò ha portato a conseguenze sia positive sia negative. Proprio per evitare il ripetersi di queste ultime, de Rougemont sottolinea la necessità di organizzare il dialogo, il quale permette di prendere coscienza di sé attraverso il confronto degli argomenti e la condivisione delle esperienze vissute con l’altro. Innanzitutto, l’Europa è il continente del futuro, ereditato dal passato. È essa stessa, cioè, il risultato di un dialogo tra culture. L’Europa è nata dalla sintesi mai completamente conclusasi di Atene e di Roma, di Gerusalemme e delle tradizioni celtiche e germaniche, degli apporti arabi e orientali, delle fedi religiose e delle ragioni illuminate profane, in costante tensione fra loro. Tale dialogo è in divenire e ciò spiegherebbe l’inerzia espansiva del disegno comunitario.
Quindi, dialogo è un momento di incontro e di confronto; quando avviene fra persone provenienti da Paesi diversi il rischio di fraintendimento, sempre presente in uno scambio comunicativo, si amplifica: valori e stili di pensiero che caratterizzano ogni cultura possono essere molto distanti fra loro, talvolta contrapposti, ostacolando una reale comprensione e condivisione di messaggi e significati.
Fenomeni come “la società plurale” e “il mescolarsi dei popoli” con le nuove migrazioni, interpellano la Chiesa la cui ‘geografia’ coincide con i continenti del mondo. Le pongono istanze inedite e urgenti in ordine alla pace, alla giustizia, alla solidarietà. In una parola, all’alba del terzo millennio, le chiedono di rafforzare lo ‘spirito di Assisi’, di farsi maestra e strumento di dialogo tra gli uomini. Esplorare e seguire ovunque in Europa, in Asia, in Africa, nelle Americhe, in Oceania – tutte le possibilità di dialogo tra le culture, le sensibilità spirituali, le religioni, è l’intento di questo libro, un mosaico di dati teologici, di approfondimenti geografici, antropologici e sociologici, di suggestioni profetiche.
L’Europa è portatrice del valore del pluralismo, presentandosi quasi come un mosaico di culture diverse più che come una cultura unica. Gli stessi confini del continente sono di natura culturale piuttosto che fisici o geografici. In secondo luogo, l’Ue riunisce all’interno di un solo corpo, ventisette Stati diversi. L’Europa, poi, è stata la culla della civiltà moderna, la quale si è successivamente diffusa nel mondo intero ma senza il contesto culturale che l’aveva vista nascere. Ha, dunque, bisogno del dialogo perché attraverso lo stesso può sperare di presentarsi agli altri, spiegare le sue ragioni e farsi comprendere. Questo bisogno conduce alla quarta motivazione: l’Europa studia le altre culture da tempo, ma queste non studiano la sua, quantomeno non nella sua interezza o unitarietà. Oltre i confini europei si analizzano certamente la cultura greca e quella romana, l’epoca rinascimentale in Italia e quella “illuminata” francese; ma difficilmente si compiono ricerche sul concetto stesso di Europa.
Qual è lo spazio che i temi della pace e del dialogo tra le culture possono guadagnarsi nell’attuale fase di globalizzazione? Esperti di diversi ambiti disciplinari hanno condotto una ricerca che in primo luogo si sofferma sulle possibilità e sui limiti della promozione della pace nel mondo globale. A partire dall’analisi della natura della globalizzazione in atto, e più in specifico delle relazioni interculturali, si sono soffermati sul tema dell’aggressività in una prospettiva filosofica e antropologica focalizzata sulla natura umana. In questo contesto, le stragi sono state individuate come uno degli aspetti più significativi di questa dimensione oscura dell’umanità e la loro negazione è stata analizzata in una prospettiva storica e letteraria, come fenomeno che tocca la memoria e la coscienza della società. L’altra constatazione è che la promozione della pace viene affidata prevalentemente alle organizzazioni e al diritto internazionali, sicché è lecito interrogarsi sulla loro capacità di costruire il dialogo e prevenire atti violenti. Una successiva parte della ricerca ha toccato la situazione italiana, nei suoi risvolti conflittuali più significativi, a partire dalla visione dello “straniero” e della sua cittadinanza, per passare ai problemi più immediati dell’inclusione dei migranti nella società. Da ultimo, viene sottolineata la rilevanza crescente che hanno in Italia, e non solo, i conflitti ambientali, intesi come conflitti tra culture diverse dello sviluppo.
Considerando che viviamo in un mondo che sempre più sacrifica i piaceri e i benefici della conversazione sull’altare delle tecnologie digitali. Parliamo con un amico, ma nel frattempo diamo più di un’occhiata allo smartphone, e spesso i nostri figli si lagnano se non hanno tra le mani un dispositivo elettronico. Viviamo costantemente in un altrove digitale. Ma per capire chi siamo, per comprendere appieno il mondo che ci circonda, per crescere, per amare ed essere amati, dobbiamo saper conversare. La perdita della capacità di parlare “faccia a faccia” con gli altri – con empatia, imparando nel contempo a sopportare solitudine e inquietudini – rischia di ridurre le nostre capacità di riflessione e concentrazione, portandoci, nei casi estremi, a stati di dissociazione psichica e cognitiva, dunque è d’uopo sottolineare le insidie e gli effetti delle appendici tecnologiche che ci circondano nella società e nella nostra vita quotidiana, per far sì che ognuno ridiventi padrone di se stesso, senza farsene acriticamente dominare.
Secondo il filosofo russo Michail Bachtin, il linguaggio (inteso come qualsiasi forma, scritta o parlata, di comunicazione) è sempre un dialogo. Nella sua “teoria del linguaggio”, il dialogo viene concepito come una condizione umana, un imperativo etico, perfino un prerequisito del pensiero. L’idea non risiede nella coscienza individuale di una persona isolata; se solo rimanesse là, degenererebbe e morirebbe. L’idea comincia a vivere, prende forma, si estende, trova e rinnova la sua espressione verbale, dà alla luce nuove idee, nel momento in cui sviluppa genuine relazioni dialogiche con altre idee. Il pensiero umano diventa un autentico pensiero, laddove entra in contatto con il pensiero di un altro, con l’altrui coscienza espressa in un discorso. Gli interrogativi suscitati dall’antropologia culturale, con lo studio delle culture, sono ancor più evidenti in un mondo globalizzato. Come la teologia morale può rispondere alla domanda posta dalla molteplicità delle culture? Si tratta solo di aggiornare il lessico della natura oppure il nuovo contesto chiede di pensare insieme l’istanza posta dalla specificità umana e dalla pluralità delle culture,
“Non siamo più capaci di discutere come quando eravamo ragazzi”: “La filosofia greca ci ha insegnato che il dialogo è il percorso migliore per arrivare alla verità: chi crede di avere già le risposte giuste in tasca si perde le obiezioni, le domande, le alternative che pongono gli altri, rimanendo chiuso in una convinzione tanto granitica quanto sterile. Dialogando, invece, si sommano le idee, magari le più assurde cadono, altre si tirano indietro, altre ancora si definiscono meglio. Credo che tutti quanti, anche senza essere stati seduti al Simposio platonico, abbiamo imparato tanto in certe nottate trascorse con gli amici a parlare della vita”.
Maria Ragionieri