Il dettaglio di un complesso che ci sfugge
Di solito s’intende la Bruttezza come l’opposto della Bellezza tanto che basterebbe definire la prima per sapere cosa sia l’altra. Ma le varie manifestazioni del brutto attraverso i secoli sono più ricche e imprevedibili di quanto comunemente si pensi.
La parola “brutto” ha radici nordiche medievali e significa ‘da temere o temuto’. Il termine ‘brutto’ si porta dietro una lunga lista di compagni: mostruoso, grottesco, deforme, freak, degenerato, handicappato. Lungo la storia, la bruttezza si accresce di varie fonti: Aristotele, che ha definito le donne degli uomini ‘deformi’, i racconti medievali su streghe che si trasformano in fanciulle bellissime, le caricature del 18 ° secolo, i ‘Freak Show’ del 19° secolo, l’arte degenerata del 20° secolo, l’architettura Brutalista e via dicendo. La bruttezza ha da sempre posto una sfida all’estetica e al gusto, e complicato la definizione di bello.
Le tradizioni occidentali vedono spesso la bruttezza in opposizione alla bellezza, ma questo concetto ha dei significati positivi in altri contesti culturali. Bruttezza e bellezza sono come stelle gemelle che subiscono l’una nella gravità dell’altra, orbitando attorno nel bel mezzo del firmamento. In fondo sulla bellezza i filosofi, gli scienziati, i letterati, gli artisti discutono fin dall’antichità, teorizzando le regole che vengono più o meno rispettate o disattese nei vari contesti o fra le differenti epoche; ma in merito alle ‘brutture’ – nella vita come nell’arte, nell’estetica, nella letteratura – si è quasi sempre preferito tacere, quasi a volerle mettere tra parentesi: ‘brutto’, nell’accezione più vasta di orrido, tremendo, demoniaco, era qualcosa che non vantava e non poteva vantare una tradizione ermeneutica, poiché connaturata a un’idea negativa, pessimista, addirittura letale o dannosa dell’argomento medesimo o dei soggetti ad esso radicati. Infatti è solo da metà Ottocento, dunque in un’epoca vicina, rispetto ai millenni trascorsi a disquisire sul bello, che risalgono i primi discorsi organici sul brutto, tuttavia, una storia della bruttezza ha alcuni caratteri in comune con una storia della bellezza.
Nell’antica Grecia, i sinonimi di brutto connotano il male, il disonore e l’handicap. Ci sono eccezioni (il brutto ma saggio filosofo Socrate, il narratore schiavo e deforme di Esopo), ma le caratteristiche esterne tendono a essere viste come un riflesso di un valore interno o un presagio. Le favole medievali di belle trasformate in bestie dimostrano le connotazioni negative della bruttezza lungo i secoli. Ai confini degli imperi coloniali nascono nuovi mostri per semplice ignoranza. Gli esploratori europei, per esempio, considerano ‘brutte’ le sculture delle divinità indiane e le interpretano come presagi apocalittici proprio perché le leggono attraverso le narrazioni cristiane per le quali non erano destinate.
La prima guerra mondiale fa saltare le vecchie nozioni di bruttezza. Non appena la guerra raggiunge nuovi livelli di meccanizzazione, dei giovani uomini, un tempo belli, vengono resi brutti dalla violenza delle granate, i gas tossici e i carri armati. Anche l’aspetto razziale implica il concetto di bruttezza, a bambola bianca viene considerata dalla stragrande maggioranza come ‘bella’, la bambola nera come ‘brutta’, con un seguito di qualità derivate, come ‘buono’ e ‘cattivo’, ‘pulito’ e ‘sporco’ Jazz e rock, una volta erano considerati musica ‘brutta’, che avrebbe danneggiato intere generazioni. Con il «barocchismo» di un’arte grottesca e decadente. Boito aveva già avuto a che fare, mostrando tutta la propria poliedricità stilistica nel poemetto polimetrico Re Orso. Ma il brutto stava lentamente reclamando un proprio spazio, emergendo a tratti nella produzione lirica e l’incessante attività critica di questi anni, che riguarderà, chiaramente, anche la musica e il melodramma; esso non è più un momento trasparente e volitivo destinato a sussumersi al bello trionfante, come ordinava l’assunto hegeliano – ma anche dell’allievo Rosenkranz – ma diventa un elemento irresolubile cui ci si rivolge per la sua fascinazione, per la sua natura di dissidio lacerante. Ancora una volta Boito a dichiararlo, facendo riferimento al prediletto romanzo victorhughiano in cui la patina mistificatoria è da tempo scomparsa. Il termine jolie laide francese, o ‘bello brutto’, nasce nel 18° secolo, quando emergono dei ‘club di brutti’ in Gran Bretagna e negli Stati Uniti come di organizzazioni di volontariato, i cui membri scherzano sul proprio eterogeneo gruppo di nasoni, doppi menti e occhi strabici. Victor Hugo ha offerto una buona definizione del brutto quando ha scritto che ‘il bello’ è ‘semplicemente una forma ritenuta nel suo aspetto più semplice’, mentre ‘il brutto’ è ‘un dettaglio di un complesso che ci sfugge e che è in armonia, non con l’uomo, ma con tutta la creazione.
Maria Ragionieri