Archeologia, la visibilità non fa storia!

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1974, Africa, per la precisione Etiopia, nella regione dell’Afar. Il paleoantropologo Johanson cammina sulla polverosa terra cercando con gli occhi segni di fossili, nell’aria calda e secca suona “Lucy in the sky with Diamond” dei Beatles. Ed ecco che, con immensa sorpresa dello studioso, spunta fuori quello che sembra un osso, un’articolazione di un ginocchio, sembra di un bipede, umano ma non troppo. 

Ebbene sì, sembra incredibile ma la scoperta dello scheletro più famoso di ominide, precisamente un Australopithecus afarensis, è avvenuta pressappoco così. Uno dei ritrovamenti più conosciuti della nostra storia evolutiva sembra uscito da un film hollywoodiano.

Molto probabilmente sono davvero pochi a sapere che questa, come altre scoperte, sono si famose, ma non importanti come la loro rilevanza mediatica farebbe pensare.

Ad esempio, nella paleontologia, sono molti e diversi i ritrovamenti di scheletri piuttosto completi, anche più di Lucy! Ma la nostra antenata, mediaticamente fortunata, può aiutarci nella causa. In effetti parlare di evoluzione ed antropologia degli ominidi è raro, non lo si sente tutti i giorni alla TV e non lo si vede spesso sui social, questo perché la modernità calca il momento, l’evento subitaneo, come può essere una grande scoperta, eventi che vengono presto dimenticati non lasciando spazio ai grandi temi della vita e del mondo.  Ma l’evoluzione umana può aiutare a rispondere a grandi domande, come fu quella della diversità della razza umana, estintasi con la fine dei Neanderthal. Ad oggi sappiamo che siamo di una sola razza, denominata alquanto presuntuosamente Sapiens. Ma sapevate che in realtà la differenza genetica tra noi e i nostri antenati, gli scimpanzè, è davvero minima? Parliamo di pochi punti percentuali, praticamente siamo quasi identici. 

Un’altra questione molto calda su cui la l’archeologia può aiutarci ad oggi è quella di genere: pensiamo di essere molto diversi tra uomini e donne, ma sapete che il dismorfismo sessuale (cioè la diversità di genere) dei sapiens è davvero trascurabile rispetto al resto del mondo animale? 

Direi che, in questo caso sarebbe opportuno dire grazie Lucy e grazie Johanson, anche se divulgare le nuove scoperte e dare loro un rilievo mediatico in relazione alla loro importanza non sarebbe male, ma come abbiamo già detto spesso e volentieri questo non accade.

Facciamo un altro esempio. Chi non ha mai sentito parlare della maschera d’oro del faraone Tutankhamon? Scoperta nella tomba intatta del faraone bambino grazie alla tenacia dall’archeologo Howard Carter nel 1922. Ma quanti sanno che in realtà il corredo è stato “riciclato” e che il suo regno, all’interno della XVIII dinastia, è stato breve e davvero poco rilevante?

La sua è una storia triste e vi assicuro, parola di archeologa, che l’Egitto faraonico non avrebbe mai scelto Tutankhamon come rappresentante del meraviglioso impero cresciuto sulle sponde del Nilo. Ma guarda caso, l’Egitto faraonico viene identificato con la sua maschera d’oro e con pochi altri reperti anche loro troppo spesso poco capiti. 

Ma anche il giovane Tut può farci un grande favore, spingere le persone a riempirsi gli occhi di quei meravigliosi colori come l’oro e il blu d’Egitto, ad entrare nel fascino enigmatico di un volto senza tempo fino a capire di averne bisogno ancora. Bisogno di conoscere ed esplorare quella terra lontana nel tempo e nello spazio, così da visitare qualche museo, come il meraviglioso Museo Egizio di Torino, pieno zeppo di tutte le meraviglie, archeologicamente molto significative, del vecchio impero.

Sapevate che la secondo collezione completa al mondo proveniente da una tomba egizia (quella di kha e Merit) si trova in Italia proprio nel museo torinese? Kha non era un faraone ma nasconde molti più segreti di quelli già svelati del faraone bambino.

Ma continuiamo il nostro dialogo tra icone del passato e comunicazione avvicinandoci geograficamente a noi 

I problemi non finiscono qui.

Ciò che accade per scoperte internazionali accade anche per reperti più vicini a noi: pensiamo alla statua del Guerriero di Capestrano. 

È stato definito falso, attribuito erroneamente al popolo Piceno, il suo cappello è stato visto come un disco volante e chi più ne ha più ne metta!

Precisiamo. Nevio Pompuleio, icona della regione Abruzzo, era un re del popolo Vestino Cismontano vissuto nel VI sec a. C. nella piana di Capestrano. 

Il suo ritrovamento, avvenuto grazie ad un contadino Michele Castagna nel 1934, è ciò che più spesso viene narrato di lui. Ma chi ne parla a livello archeologico? 

Quasi nessuno, o chi ne parla non ha una grande rilevanza mediatica, per questo i dubbi sulla sua originalità o sulla funzione del suo grande copricapo assalgono i curiosi.

La statua, a livello scientifico, è inserita in un panorama di statue segnacolo (quindi che segnano la presenza di una sepoltura, monumentale o no che sia) edificate in Europa nei secoli tra VI e V sec. a.C.

Un panorama culturale che inserisce il guerriero, i Vestini, e tutta la regione Abruzzo in un orizzonte culturale fatto di popoli e guerrieri, diverso dal versante tirrenico italiano che vuole un’organizzazione sociale diversa, fatta di città, già dalla fine dell’età del bronzo. Organizzazione che inizierà prima sulle coste occidentali italiane e solo successivamente in Grecia. 

Volete conoscere la vera storia del Guerriero?

Un giorno ve la racconterò ma per adesso, da buona studiosa, vi lascio con una domanda.

L’archeologia crea cultura e la cultura salva il mondo ma quanto la rilevanza mediatica può aiutare in questa impresa se sotto i riflettori spesso rimane ciò che fa scena e non ciò che crea contenuti reali?

Dott.ssa Andrea Di Giovanni

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