Ricordo perfettamente il mio primo giorno di scuola. La mamma e la sorella di mio nonno, la donna che mi avrebbe cresciuto e sostenuto fino a 29 anni per poi andare via per sempre, mi fecero una fotografia sul balcone di casa. Era una tiepida giornata di settembre. Quel giorno il cuore cominciò a battermi forte sin dal mio risveglio.
Ricordo che intorno alla mia casa c’erano solo campagne e il sole non era così caldo come oggi.
Ricordo il momento in cui per la prima volta affrontai il grande portone della San Giuseppe, una struttura razionalista dai corridoi lunghi e simmetrici. Ricordo il mio grembiulino blu come la notte e con il colletto bianco come la neve. Ricordo che la mia classe era quella che affacciava al vecchio Stadio Comunale di Teramo. Per chi non ha nemmeno una vaga idea di cosa stiamo parlando, abbiamo scritto di recente un articolo dedicato proprio a questo vecchio tempio del calcio abruzzese. Ricordo che la mia maestra, dopo un sospiro, si avvicinò a quella finestra da dove si vedeva il campo di calcio illuminato tiepidamente dal sole di settembre. Ricordo il silenzio religioso che aleggiava in quella stanza. Eravamo all’incirca 30 bambini e nessuno si conosceva. Maria, questo il nome della mia prima maestra di italiano, guardava fissa verso il campo di calcio, e con un tono di voce quasi severo disse: “Vediamo, oggi, chi prenderà bravo, o bravissimo”. Si, perché all’epoca questi erano i voti. Da quel momento in poi ho una sorta di buco. Del primo giorno di scuola non ricordo granché. Ricordo, però, che la nostra scuola non era fatta di tablet o telefonini, né di chat di whatsAPP. Ma di fogli, matite, gessi, lavagne, penne, gomme, dettati infiniti sui quaderni a righe e tabelline infinite sui quaderni a quadretti. Ricordo un pomeriggio intero passato a scrivere sequenze numeriche, perché la maestra non era convinta che avessi capito bene. La scuola, nel 1993, non era quella di adesso.
Se prendevi un richiamo, la colpa era sempre la tua.
E lo accettavi, perché andare a scuola significava prima di tutto assumersi le proprie responsabilità.
E poi se la mia maestra Maria mi avesse visto in difficoltà, e mi ci ha visto, sarebbe stata la prima a farmi capire cosa stessi sbagliando per progredire.
Non avrebbe finto di essere dolce e amorevole come mia madre.
Non avrebbe finto di essere un’amica, né avrebbe usato un tono da cartone animato perché un insegnante è un insegnante.
Non avrebbe messo una maschera perché la maestra Maria, come la maestra Rosanna e la maestra Bettina, era una persona vera che ti diceva le cose come stavano. Punto. E le chiacchiere stavano a zero.
E anche se all’inizio era difficile per chiunque, ben presto tutti e 30 capimmo che quell’atteggiamento di sana severità ci responsabilizzava, ci esortava a fare di più.
Ero già un po’ più grande quando decisero di farci fare i rientri a scuola. Per me era un trauma. Non avrei potuto giocare per le campagne intorno a casa, mi sentivo soffocare. E così, decisi di legarmi al palo davanti casa. In questo modo mio padre non avrebbe potuto portarmi a scuola. Il nodo era uno schifo, e così mio padre mi prese per un braccio. Rimasi attaccato al palo con l’altra mano, disperato, cercando di non andare a scuola. Nel frattempo vedevo il sole scendere fra le colline e sapevo che quel pomeriggio non me lo avrebbe ridato nessuno mai. Mio padre non sapeva cosa fare e alla fine fu costretto a prendermi di forza. Arrivai al mio primo rientro in ritardo, e piansi talmente tanto che avevo la maglia bagnata dalle lacrime. Ricordo i pomeriggi a scuola, in compagnia dei nostri maestri, ricordo il loro impegno nel trasmetterci dei valori che a noi sembrano inutili. Non si inventavano giochi arzigogolati, i miei maestri. Non avevano fatto ricerche scientifiche per stabilire quando era giusto fare una pausa, non facevano stage formativi con luminari provenienti da chissà quale città, non leggevano su internet come affrontare certe problematiche in classe, non dialogavano con i genitori frequentemente, non avevano un cellulare per dialogare fra di loro, non conoscevano l’inglese, non potevano intervallare le loro materie con laboratori più artistici.
Avevano un’altra cosa, però: la disciplina. E il rispetto per ciò che facevano. Tutto ciò che sapevano, cercavano di scolpirlo nella tua memoria come un artista fa con la sua pietra. E anche se a volte le schegge della pietra schizzavano dappertutto (facevo fatica ad adattarmi ai nuovi compagni, alla scuola e alle sue regole, solo io so quanto ho pianto in quel periodo) loro erano lì e cercavano in ogni modo di finire la loro opera d’arte. Costasse quel che costasse. Fino all’ultimo minuto prima di uscire, loro erano lì. E sono sicuro che vedevano la mia sofferenza, tuttavia non scendevano mai sul piano della commiserazione o della comprensione oltre misura. Stoicamente, cercavano di nascondere il loro essere madri e padri prima ancora che insegnanti.
Di quel periodo, non ricordo neanche un’assenza da parte dei miei maestri. Ricordo ancora le loro voci, come se fossero ancora qui, accanto a me, quasi 30 anni dopo.
Ricordo che l’unico momento in cui interruppero una lezione era per farci vedere una partita dell’Italia under 16 dalla finestra che affacciava sul vecchio Stadio Comunale.
Ricordo che un’altra volta, in cinque anni, fermarono il loro piano di studi per parlarci di quel bene preziosissimo che è l’acqua. Ricordo che ci diedero un diario in cui erano scritte tutte le buone regole da seguire per risparmiare acqua. Nessuno poteva immaginare che presto avremmo vissuto in un mondo di siccità. Conservo quel diario a casa con cura.
Ricordo che se un ragazzo di un’altra cultura era in classe con noi, non c’era nessuna presentazione da fargli o farle fare. Non c’era nessun caso umano se non parlava bene la nostra lingua.
Se alzava le mani con qualcuno, veniva trattato come tutti gli altri. Era uno di noi e basta.
Non esistevano ancora termini come bullismo, o deficit cognitivo. Ma le tabelline, quelle me le ricordo ancora come l’Ave Maria. Il rispetto per chi è diverso da me, quello me lo ricordo ancora come il Padre Nostro. E mi ricordo ancora dei miei pianti silenziosi all’ultimo banco perché i tempi non erano ancora abbastanza maturi per capire le diversità. Sono immagini scolpite nella pietra, se c’è una pietra dentro di me. Immagini di un’epoca che non esiste più, ma che mi ha permesso di essere ciò che sono oggi.
La scuola ha compiuto notevoli passi avanti, negli ultimi venti anni.
Nello stesso tempo, però, ha perso quella disciplina. Quando non diventava violenza, sopraffazione, crudezza, quella disciplina lì sarebbe servita alle giovani generazioni di oggi.
Si, perché anche se la politica con coraggioso slancio prova a tirare sù gli animi, è fuori discussione che stiamo affrontando la più grande crisi degli ultimi cinquant’anni. C’è una guerra in Europa. C’è un clima meteorologico impazzito per una sciagurata gestione ambientale. C’è un’emergenza legata ai rifiuti e l’acqua scarseggerà sempre di più. Già… L’acqua.
Si, un pizzico di sana, amorevole disciplina potrebbe servire a questi cuccioli spauriti della nuova Europa, che vanno in tilt appena si blocca un computer.
C’è un film straordinario, uno dei grandi capolavori quasi dimenticati nel nostro cinema, si chiama “La Scuola” di Daniele Luchetti. Il film, tratto dai romanzi di Starnone, racconta appunto le vicende che si svolgono all’interno di una scuola della periferia romana. Fu un’illuminazione quando lo vidi per la prima volta, perché capii la ricchezza del vivere in un posto di provincia quasi dimenticato. Un’altra illuminazione fu anche “I 400 Colpi”, film manifesto della Nouvelle Vague francese. Film coraggiosi, diversissimi, che raccontano una scuola imperfetta, ma che scolpiva dentro ognuno di noi il disegno di ciò che saremmo diventati. E poi c’è il film della nostra vita. Della nostra scuola.
Era il 1993.
E si.
Era un mondo diverso.
Marco Cassini