Le addizioni sono le prime operazioni che impariamo a scuola e questa è assai facile da comprendere perché la viviamo tutti i giorni. Parla della nostra vita oggi, nel momento esatto in cui la viviamo. Veloce, velocissima: che richiede un apprendimento continuo in questa costante accelerazione che è lo sviluppo umano progressivo.
Soprattutto la generazione che ha vissuto un tempo – non così lontano parliamo degli Anni ’80 – senza lo smartphone può comprendere quanto la vita sia cambiata: il telefono cellullare (riduzione neanche tanto mini all’inizio del citofono, o dell’apparecchio di casa/studio) è nato per certe categorie professionali. Volete una prova? Controllate il numero di telefono del vostro medico curante se ha tenuto lo stesso e vedrete un prefisso che tradisce lontananza nel tempo. Era una tecnologia che doveva essere utile per rispondere alle emergenze. Oggi è la gran parte della nostra comunicazione: ognuno ne possiede uno o più. Non ci sono bambini piccoli (anche piccolissimi) che non siano in grado di usarlo; a volte meglio di tanti grandi. Non lo usiamo più solo per essere raggiunti – per quello c’era il cercapersone – è informazione continua (tanto che è diventato difficilissimo staccarsi, perché soddisfa la nostra innata curiosità), sia privata che della comunità intera. È vita social – e non sociale (quella ormai è destinata agli eventi, come fossero giorni festivi) – ma sempre a connessione mediata. Lo smartphone è la porta di accesso di ognuno alla propria vita di ogni giorno. Si può uscire senza smartphone? La risposta è no. Perché quelle 2/3 volte all’anno che lo dimentichiamo si corre a cercarlo. Avete mai notato cosa fanno le persone che escono dall’acqua o dalla piscina come prima cosa: si asciugano e le mani e lo afferrano. Corrono alla porta!
Henry Ford sosteneva che il vero progresso doveva prevedere che i vantaggi di una nuova tecnologia fossero a disposizione di tutti. In base alle proprie possibilità (anzi in caso di smartphone non si bada a spese!) ognuno ha almeno uno smartphone (quelle categorie professionali per cui era nato oggi ne hanno due, quello personale e quello privato), oggi questa tecnologia è “troppo umana”.
Sul livello comunicativo, che è prettamente personale – se si esclude l’utilizzo dei social network e l’essere parte delle loro community – si innesta poi l’intelligenza artificiale che ci connette alle cose. L’obiettivo è governarle da remoto (la grande libertà di programmare la lavatrice a distanza!) e di mettersi a capo del nostro “piccolo” esercito di dispositivi intelligenti, che hanno il solo obiettivo di farci ottimizzare il tempo. Per fare cosa? Per restare connessi. Oggi sembriamo correre con ansia non verso qualcosa – il famoso sviluppo costante e progressivo di ottocentesca memoria – ma avvolti in una spirale in cui si guadagna tempo per cercare altro tempo. Con la sensazione che rimaniamo connessi per aggrapparci al passato, non perderci nulla e se possibile vivere di più. Il tempo che passa non lo possiamo “riavere indietro” e la vita interconnessa ci dona l’illusione di dominare l’ansia che ne scaturisce. In fondo alla fine è un buon bilancio: la tecnologia ci ha risolto tutti i problemi tranne il tempo e la sua ansia. In fondo Albert Einstein lo aveva detto che le macchine sarebbero riuscite “a risolvere tutti i problemi, ma mai nessuna di esse potrà porne uno”. A quello ci pensiamo da soli!
Angela Oliva