“Resistiamo per far conoscere l’importanza dell’archeologia in Abruzzo”
In uno spazio dedicato alle personalità più caratterizzanti della nostra regione non poteva mancare il professor d’Ercole. Abruzzese per sangue paterno Vincenzo d’Ercole lavora in Abruzzo per quarant’anni e nonostante la sua veneranda età di settantenne non si è di certo fermato. In pensione dal Ministero dei Beni Culturali, d’Ercole scende in campo come professore nell’università d’Annunzio. Docente a contratto di “Civiltà dell’Italia preromana”. Ma non finisce qui, il suo ritorno in Abruzzo da professore lo riporta in uno dei siti da lui scavato e valorizzato, la necropoli di Fossa, con una nuova campagna di scavo che lo vede impegnato in prima linea sul campo per il terzo anno dalla ripresa.
Stimatissimo professore e maestro, mi ha permesso di rubare una breve e personale intervista fuori dalle nostre collaborazioni scientifiche ed universitarie per regalare anche a voi un po’ di quella magica energia che riesce sempre a trasferire, non solo a me, ma a tutti i suoi allievi, vecchi e nuovi. Le sue parole sono un regalo che vi viene fatto, come ogni giorno viene fatto a noi. Personalità come la sua stanno scomparendo. Spero che sia utile a tutti per capire, non solo l’immensa importanza dell’archeologia per la nostra terra, ma per il valore di una passione militante alla ricerca della conoscenza per il bene comune.
Professore, qual è il suo legame di sangue con l’Abruzzo?
Come si può capire dal mio cognome d’Ercole, ho origini abruzzesi, anche se nasco a casa di mia madre ad Allerona in Umbria, nome alquanto profetico dato che Allerona è il nome di una tipologia di spada dell’età del Bronzo finale. Mio padre era un abruzzese Frentano, la famiglia d’Ercole è originaria di Scerni, un piccolo paese vicino Casal Bordino e Vasto. Il legame che ho con questa regione nei primi anni della mia vita è ristretto ma significativo. I miei genitori erano separati e mio padre mi portava una volta all’anno da mia nonna, che viveva ancora a Scerni. Ricordo questi viaggi come una sorta di poema o di viaggi della memoria indietro nel tempo perché mia nonna viveva in una casa dove non c’era ancora l’acqua corrente e a me, che venivo da Roma, seppur una Roma degli anni 50, sembrava di tornare nella preistoria. Questo legame è durato poco visto che mia nonna è morta nel 69. Quindi l’immersione nell’Abruzzo “preistorico” è finita durante la mia prima adolescenza. Ovviamente è ricominciata quando ho iniziato a lavorare per la soprintendenza archeologica d’Abruzzo nel 79.
Che cos’è per lei l’archeologia?
Be, banalmente direi, è tutto! Provando a definire questo tutto devo partire dalle prime esperienze con il mondo dell’archeologia. Ho iniziato con il G.A.R., il Gruppo Archeologico Romano da liceale. Ciò mi ha portato a fare ricognizioni in Etruria e talvolta a ripulite tombe saccheggiate dagli scavi clandestini. C’è stato un approccio pratico, non solo all’archeologia in sé ma anche all’organizzazione di persone e ragazzi, in maniera volontaristica. Era quindi un insieme di lavoro archeologico e di gestione di una piccola comunità.
L’archeologia in sé è stato davvero tutto. Mi piaceva studiarla e, avendo frequentato l’università di Roma La Sapienza in un’epoca che permetteva la scelta delle materie di studio in maniera molto libera, scelsi in maniera molto selettiva di fare tutti esami di preistoria e protostoria. Dopo il VII sec. a.C. per me era tutto moderno!
A parte lo studio ho incontrato persone meravigliose: Peroni, Pallottino, Puglisi. Nomi che hanno fatto e scritto l’archeologia italiana. È stata davvero interessante e formativa l’università coniugata con l’attività sul campo con il G.A.R che ho lasciato nel 77 quando stavo per laurearmi, perché le due cose non potevano più convivere. Così il volontariato ha lasciato spazio alla professione. Nel 79, con un’ennesima strana legge italiana promulgata da Andreotti, la legge 285, inventata per togliere menti e braccia al terrorismo rosso, per far sì che i ragazzi lavorassero e non pensassero a fare la rivoluzione, sono entrato in Soprintendenza archeologica d’Abruzzo. E fu come entrare in un mondo misterioso. L’Abruzzo archeologico, allora come oggi è un mondo tutto da scoprire. Questo percorso, in una strana situazione sociale e archeologica, mi ha affascinato tantissimo. Anche quando, nel 92, sono stato mandato alla soprintendenza dell’Etruria Meridionale non ho mai lasciato l’attività in Abruzzo. Ho lavorato in tutte e due le sedi anche perché, con la mia voglia di lavorare in questo ambito avrei potuto anche fare quattro lavori insieme!
Poi sono tornato in Abruzzo che è stato il mio territorio principale, anche se l’Etruria, sia da studente che in quei tre, quattro anni da funzionario è stato un posto importante perché importante era il confronto archeologico tra il mondo adriatico tribale e il mondo tirreno delle città stato.
Quale pensa sia il valore dell’archeologia per l’Abruzzo?
Domanda complicata, ciò che penso è che ha un valore immenso. L’Abruzzo non ha un’identità, un po’ come il Molise, simili anche per territorio e cultura. L’Abruzzo esiste nell’immaginario collettivo con le sue cose più banali, gli arrosticini, il mare e la montagna. Che potrebbero avere una storia molto più significativa. Ad esempio, gli arrosticini non sono un prodotto ottocentesco: abbiamo le prove archeologiche che vedono spiedi e spiedoni per la carne già in tombe di IV sec a.C.. Non li avranno chiamati arrosticini ma sono estremamente simili.
L’Abruzzo si bea di queste cose molto vicine nel tempo, che puoi conoscere facilmente, di cui ha una tradizione scritta o visiva come foto e film. Per gli abruzzesi (e non solo) quello che non si vede non esiste e ovviamente l’archeologia così antica non si vede. A differenza di quella classica che si presenta più visibile. Scavata e studiata e forse valorizzata, ma che non rappresenta l’Abruzzo identitariamente. Ovvio non sto dicendo che questa parte non vada scavata ed indagata, la storia di un territorio è fatta di tante stratificazioni, ma bisognerebbe studiare quella parte di storia in cui l’Abruzzo è protagonista di sé stesso. Quando Roma conquista il nostro territorio tutto diventa Roma, l’Abruzzo è una semplice provincia, nemmeno principale. Nel I millennio a.C., ma anche prima, l’Abruzzo è interprete di sé, costruisce i suoi modelli culturali, i suoi oggetti specifici. Questo andrebbe capito!
L’Abruzzo ha una grande quantità di siti mostrabili! Cito Fossa ma non è il solo. Parliamo di un sito che presenta tumuli trovati intatti, non toccati dall’antropizzazione moderna. Ha i menhir in piedi: chi visita Fossa si chiede come abbiamo fatto a rimettere in su queste pietre così grandi e pesanti… non l’abbiamo fatto! Li abbiamo trovati lì e gli abbiamo solo scavato intorno! Se fossimo inglesi sarebbe Stonehenge ma siamo in Abruzzo e non lo conosce nessuno.
Cosa lascia e cosa porta con sé dell’Abruzzo?
Be, questa domanda, in questa fase della mia vita, in cui ho appena compiuto 70 anni è molto introspettiva!
Lascio la ricerca e tra un po’ lascerò l’ultima cosa che ho scoperto: dopo essere andato in pensione dal Ministero dei Beni Culturali ho iniziato ad insegnare come professore a contratto nell’università di d’Annunzio di Chieti Pescara. Lascio la possibilità di insegnare che, chiaramente non mi porta soldi, fama e potere ma il piacere del rapporto con le nuove generazioni di archeologi. Penso che piacerebbe un po’ ad ogni vecchio, è come raccontare la storia ai nipotini! Ma soprattutto ho la speranza di lasciare qualcosa. Tentare di coinvolgere persone che dovranno fare questo mestiere nel futuro è la cosa più importante per me. E come se io fossi un missionario che sparge la buona novella! Nel mio caso, per fortuna non è un fatto ideologico o di fede ma rappresenta la concretezza del lavoro e di una passione. È chiaro che l’archeologia la si fa essenzialmente per passione: prima della mia generazione gli archeologi erano tutti ricchi e indagavano per diletto. Gli anni 70 sono stati il momento in cui in Italia sono entrati gli archeologi professionisti. Era un lavoro con cui si viveva, secondo me questo va ridetto! In questo momento si sta tornando indietro come se gli archeologi potessero lavorare per hobby, è una scelta da ricchi. Questo è un vero lavoro in tutti sensi. È totale nell’impegno quotidiano sullo scavo, sul campo e nella ricerca. Lo è nel rapporto con le persone: molto del nostro e del mio lavoro, soprattutto come funzionario, è quello della tutela del passato. Le persone moderne preferiscono non farlo! Sembra sempre più importante fare la casa, la strada, il giardino, fare quello che è importante per una persona singola a svantaggio della collettività. Il monumento è di tutti. Proprio perché è di tutti in qualche modo non è di nessuno! La sfida dell’archeologo è quella di mitigare questo egoismo cosmico di avere sempre e solo per sé. È una sfida anche sociale, quindi mi piacerebbe che, quello che sono riuscito a fare, in quarant’anni di lavoro, rimanesse come testimonianza reale. Come la possibilità ad oggi di visitare le necropoli di Campovalano, di Fossa, il museo di Campli. Se sono visibili è perché c’ho lavorato. Queste cose vanno implementate non fatte morire. In un periodo che spesso usa i beni culturali come merce da strapazzo le realtà minori come in qualche modo è l’Abruzzo vanno valorizzate. Perché non sono minori per importanza storica! L’Abruzzo dovrebbe capire che ha ciò che nessuna regione in Italia ha. I miei colleghi che lavoravano in Etruria si stupivano quando venivano a conoscenza del numero di tombe che scavavo e trovavo in questa terra. Migliaia di tombe indagate. Non capita nel resto d’Italia. Molte cose sono ancora capibili completamente come Fossa, arrivata a noi intatta! Solo il menhir più alto della tomba trecento è stato intaccato, “decapitato” dalle arature. L’Abruzzo, e in qualche modo anch’io, siamo come quel menhir: ci siamo, ci sono, mi hanno tagliato qualcosa ma resistiamo e dobbiamo resistere, sperando che qualcuno tutto questo lo capisca e lo valorizzi.
Mi riporto ciò che ho scritto, anche se la tendenza attuale è di leggere il meno possibile e questo mi spaventa, essendo io grande lettore per studio e diletto. A me piacciono i libri da mille pagine!
Mi riporto ancora tutti siti scavati, un altro importantissimo è Celano Paludi: rarissimo sito palafitticolo per l’Italia centrale che meriterebbe tantissima attenzione ma sembra che non interessi a nessuno.
Mi porto anche la speranza che qualcuno continui questo lavoro, se posso dire, con la stessa passione, voglia e rabbia addirittura! Rabbia perché è come combattere contro il mondo. Il mondo è fatto spesso di persone egoiste che pensano solo all’immediato! Noi combattiamo per una storia millenaria e per far sì che quella storia ci insegni qualcosa.
In questi giorni mi fanno impressione i discorsi pieni di ignoranza sulla storia Russa. La storia è importante! Bisogna conoscere per tentare, non dico di essere migliori, ma di fare meno errori. Questo tipo di attività intellettuale sta sostanzialmente sparendo. È difficile faticare per capire perché capire significa faticare. Vorrei della gente che guardasse oltre ciò che si vede e lo conservasse per la collettività passata presente e futura.
Grazie professore.
Dott.ssa Andrea Di Giovanni