“C’è una crisi di civiltà, c’è una crisi sociale, c’è una crisi politica. L’ingranaggio della società che è stato rotto nell’agosto 1914 non ha mai più funzionato, e indietro non si torna. Come possiamo contribuire a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti?”
Sembra impossibile che questa frase sia stata scritta da quell’ingegnere visionario che nel 1932 – nel mezzo tra i due conflitti mondiali – lancio la sua prima macchina da scrivere. In quel secolo Adriano Olivetti, oggi ancora oggi attualissimo nel suo pensiero, nella sua utopia. Perché se omettessimo il riferimento temporale la crisi e l’afflato pedagogico, l’invito all’impegno, restano intatti, e ne fanno il padre della moderna Corporate Social Responsibility: la responsabilità sociale d’azienda. Già perché la fabbrica come la chiamava nei suoi scritti – intesa come comunità – era fatta dagli uomini per migliorare la vita di tutti. Attraverso una concatenazione di sogni singoli – che come amava dire l’imprenditore piemontese, rimangono tali se nessuno comincia a lavorarci – che ne innescano uno collettivo. In fondo quella era la sua idea del Made in Italy – quella migliore che lo ha reso un asset nel mondo – che partì da Ivrea nutrendosi della sua idea di riforma sociale necessaria per superare la prima ferita, quella appunto della Grande Guerra per progettare la prima Silicon Valley Italiana.
Poi è la fine del secondo conflitto mondiale a rendere l’articolato sistema di interventi industriali e sociali concatenati che lui ha ideato – e idealizzato – un esempio fattivo di successo. “Lo incontrai a Roma per la strada, un giorno, durante l’occupazione tedesca. Era a piedi; andava solo – scriveva di lui Natalia Ginzburg – con il suo passo randagio; gli occhi perduti tra i suoi sogni perenni, che li velavano di nebbie azzurre. Era vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendicante; e sembrava, nel tempo stesso, anche un re. Un re in esilio, sembrava”.
E quel re passò dalle macchine da scrivere ai computer, senza contare una miriade di apparecchiature marchiate Olivetti, perfino quando l’azienda, passata di mano, era fallita. Il brand, la reputazione, che oggi è il must have da perseguire, il pensiero di Adriano Olivetti sono intatti al di là del tempo. Perché? Il fondamento della sua utopia – partita con anni di vantaggio, nutrita dalla guerra e della crisi – si alimentava dell’idea che il lavoro dovesse essere innanzitutto gioia, in un tempo allora (perché oggi è diverso?!?) in cui “è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo”.
L’esempio fulgido di lavorare per qualcosa che contribuisca alla propria crescita e allo stesso tempo a quella della comunità di cui facciamo parte, in cui lasciamo il segno. A cui in un certo senso ci decidiamo a restituire Finalmente. E se è un segno buono – magari da piccolo disruptor, senza scomodare il grande Olivetti – di quelli che decidono di camminare più in là di tutti per un sogno collettivo.
Angela Oliva