Vi racconto una storia che nasce da lontano, che inizia con un uomo che credeva nella filosofia del mangiar sano, nel rigore dello studio e del metodo. Un uomo un pò folle, un pò visionario. Con una filosofia di vita nella quale passato e futuro, tradizione ed innovazione si integravano alla perfezione.
Nicola Salvatorelli, per me semplicemente Nicola.
Lui mi ha insegnato il significato del mangiare sano, in un tempo nel quale non se ne parlava tanto.
Nicola diceva che il mangiare è un rito, che da come una persona mangia puoi comprendere tante cose di lei: il rispetto del cibo, così come il rispetto di chi lo ha coltivato o allevato e cucinato. Il cibo è innanzi tutto amore e rispetto, ma è anche condivisione, convivialità e ospitalità. Il cibo è storia, è la nostra storia di bambini. Se ti chiedessi di chiudere gli occhi e immaginare di mangiare qualcosa di buono che non mangi da tempo, di gustarne il profumo, il colore, la forma e il sapore, molto probabilmente ritorneresti indietro nel tempo a quando eri bambino, ad un piatto cucinato dalla mamma o dalla nonna, come le polpette, gli gnocchi, le lasagne. Cibi che in fondo scaldano il cuore e l’anima.
La fisica quantistica ci dice che il cibo ancor prima di modificare il nostro microbiota, modifica il nostro campo elettromagnetico. Tutto questo è fantastico! Ma sarà un’altra storia.
Nella storia che voglio raccontarvi, Nicola comprò la vecchia cantina della contessa Bassini, sul belvedere di Montesilvano Colle: un fondaco, come diceva lui, con delle piccole finestrelle, la sabbia per terra, i muri anneriti dalla fuliggine. Si era appena laureato e con i primi soldi aveva fatto questo investimento. Il padre gli disse che seppur si fosse laureato in medicina, in fondo non aveva capito molto della vita, se con i primi guadagni aveva comprato un vecchio edificio. Lui ci rimase male, ma non lo diede a vedere. Dopo molti anni, insieme allo chef Niko Romito, nacque il ristorante “NINI’ ”, dalle iniziali di Nicola e Niko. Il vecchio fondaco divenne una cantina in mattoni, con ampie vetrate e parquet; la collina divenne un belvedere con un dehor in stile francese, dove mangiando, lo sguardo si perde all’orizzonte, che sia l’alba sul mare, il tramonto oltre il pino a nord ovest, le luci del crepuscolo che dalla costa si spingono sulle colline circostanti.
Io me le ricordo le serate passate a parlare di cibo, a sognare una nuova filosofia fatta di bontà e salute a tavola, le prove per i nuovi piatti, i cucchiai e le forchette che affondavano contemporaneamente nello stesso piatto, le parole ricercate per darsi un certo contegno, come se fossimo critici enogastronomici, ed i brindisi ed applausi finali. Come ricordo i viaggi alla ricerca delle aziende agricole per ascoltare la loro storia, i sacrifici e i valori che ci venivano raccontati, tramandati di generazione in generazione. Il viaggio nella terra della transumanza, della solina, dello zafferano. Lo studio dell’acqua alcalina, delle erbe antiche, dei metodi di conservazione e cottura dei cibi. I titoli romantici e nostalgici dati ai menù a tema: “Sogno di una notte di mezza estate”, “Profumi e colori del bosco in autunno”, “Candore d’inverno”.
Questa storia oggi continua con un altro uomo, con i piedi per terra e lo sguardo che punta lontano.
Entrambi si chiamano Nicola. Sarà un caso?
Nicola Salvatorelli e Nicola Cotellessa.
Il ristorante oggi ha cambiato nome, si chiama “KILO”. Non vi nascondo che all’inizio avrei preferito che mantenesse il vecchio nome di “NINI’ “, poi ho compreso che bisognava lasciare spazio al cambiamento e rispettare la nuova identità. Ogni tanto sbaglio ancora e lo chiamo con il vecchio nome. L’insegna è diversa, ma filosofia è rimasta la stessa, ed è per perciò che mi sento parte integrante di questo progetto. La filosofia è quella del mangiare buono di casa, della convivialità e dell’abbondanza a tavola, proprio come si faceva una volta.
KILO è carne alla brace, tartare e carpaccio, sagne e fagioli, ravioli al sugo di 3 carni, patate al coppo, pizza dolce, pane fatto in casa, buon vino.
“KILO è un termine che si usava nelle macellerie” mi ha detto Nicola Cotellessa, e a me questa parola ha fatto pensare a quando una volta, dopo la guerra, le donne, andando a fare la spesa, solo nelle grandi occasioni potevano dire: ” Mi dia un kilo di carne!”, e così ho immaginato quell’ emozione e quell’orgoglio di poter fare un acquisto per il giorno di festa, per condividere una tavola imbandita con la famiglia o con gli amici.
Ho pensato a quando le feste si facevano in casa, a quando il ragù si iniziava a preparare dalla colazione e nei paesi le signore lasciavano aperte le finestre per far sentire quel profumo alle “commari”. Alla farina sparsa sulla tavolozza, alla pasta fatta in casa, disposta in ordine geometrico sotto i canovacci.
Ho pensato alle donne con i grembiuli davanti ai fornelli, a quei grembiuli che non si usano più e che son finiti nell’ultimo cassetto del comò.
Ed ancora a quando il pezzo migliore di carne, o la fetta più grande del timballo, veniva data per rispetto al capofamiglia; a quando veniva concesso ai bambini di leccare il cucchiaio della crema o di intingere un pezzo di pane nel sugo che bolliva.
Oggi queste emozioni, questi profumi e immagini stanno scomparendo. Si va sempre di fretta, non ci si mette più il grembiule, si cucina velocemente, spesso si mangia fuori o si ordina da asporto. Si cucina in tv, ma non a casa. Nelle case si sente il profumo di vaniglia, di rose, di lavanda, perfino dell’oceano, ma sempre più raramente quello della cucina. Non c’è tempo, si va di fretta, poi si sporca e chi pulisce? Il servizio buono della domenica rimane nella credenza per anni.
Così mi son detta: “Non ci si può commiserare, non ci si può nascondere dietro ai soliti luoghi comuni del tipo: non ho mai tempo, si stava meglio quando si stava peggio! Bisogna accettare il cambiamento del tempo che passa, guardando sì al futuro ma rispettando le tradizioni e la nostra storia.”
Io stessa non riesco a cucinare come vorrei, ed è per questo che ammiro e rispetto chi lo fa per passione, ancor prima che per lavoro.
“KILO” per me è già casa, il posto dove mangiare i piatti della tradizione, in maniera informale, con il giusto disordine sul tavolo, dato dalla condivisione di un piatto centrale di antipasti, o dalla zuppiera di pasta e fagioli, dalla pietanza che si assaggia nel piatto accanto, dal pane sbriciolato sulla tavola, da quel bicchiere di vino in più che fa allegria. Il posto dove andare la domenica a pranzo con la famiglia, o con gli amici di sempre, o dove saper di ritrovare gli amici.
Ho visto gli occhi brillare ed erano quelli di Nicola Cotellessa. “Un folle ad aprire una attività in questo periodo storico?” – “No, un visionario!”.
E ho visto gli occhi del suo cuoco Cono. Cono viene dal Venezuela, è cresciuto in un ristorante di carne, mi ha raccontato la sua storia di vita e la sua passione per la brace. Tutto questo loro te lo trasmettono davvero. Mi hanno detto che per me quel ristorante è casa, e con il termine “casa” hanno racchiuso un mondo. “Casa” è abbraccio, è calore, è spontaneità, è buon cibo.
La mia cucina è spartana, essenziale, frugale. Amo il buon cibo, ed amo tutto quello che esso rappresenta: lo studio, la ricerca, perfino la storia delle persone e delle aziende del territorio che, con grandi difficoltà, difendono la nostra tradizione e la salute a tavola.
Tornerà presto a vivere un bellissimo progetto “Laboratorio di cucina e salotto letterario”, in onore e in ricordo dei salotti dannunziani della Bella Pescara. Nella cornice di KILO nasceranno incontri enogastronomici, dove le aziende, gli esperti del settore, i cuochi e le persone in genere potranno confrontarsi e mangiare. In questi incontri ascolteremo il racconto di chi ogni giorno lavora con passione e dedizione per un mondo migliore. Si mangerà insieme, ci si confronterà e si imparerà tanto.
Dentro questa storia, dentro questo progetto c’è la vita!
Anna De Antoni.