“L’eccellenza non è un atto ma un’abitudine” – Aristotele
Il riconoscimento del merito e la valorizzazione del talento per creare eccellenze, dovrebbe essere un’abitudine consolidata, sempre e non solo congiunta alla casualità attivata dalla sorte. In generale, la ricerca intende analizzare il tema del merito nel lavoro e del suo riconoscimento come valore e come strumento di promozione di sé stessi. Se l’Italia, secondo le statistiche, risulta in fondo alla classifica europea della meritocrazia, ne deriva una carenza di pratiche meritocratiche nelle imprese e nelle organizzazioni pubbliche tale da rischiare di comprometterne la competitività e lo sviluppo. Da qui discende il noto, e negativo, fenomeno della ‘fuga di cervelli’, costringendo giovani di talento ad emigrare in mancanza di contesti meritocratici e prospettive di lavoro interessanti. Certo, se è un bene che in un mondo sempre più globale gli italiani, in genere giovani, vanno all’estero, è però un male quando questo avviene perché da noi non ci sono opportunità e prospettive; insomma quando il viaggio è quasi obbligatoriamente di sola andata. Questo trend va invertito, valorizzando e premiando i talenti, le eccellenze, le professionalità, i meriti. Il processo di riconoscimento del merito, però, nasconde diversi rischi vista la natura delle attività, la tradizione pregressa e l’interdipendenza reciproca fra gli operatori.
Non è solo la dote “naturale” a determinare il successo personale, ma piuttosto credo a una delicata interazione tra passione, attitudine, impegno, sacrificio e opportunità, che stimola l’individuo a raggiungere i più alti livelli di affermazione e a condurre esistenze ricche di significato e scopo. Il talento è sì anche predisposizione, ma soprattutto volontà, libertà di realizzarsi e responsabilità; richiede la capacità di investire su se stessi, e saper valorizzare, il proprio “dono”. Un paese “serio” è quello che prende sul serio il talento e il merito dei nostri giovani, che investe sulla ricerca, che sa che nei momenti di crisi solo capitalizzando queste risorse umane potrà avere la forza per ridare speranza e dignità. Il riconoscimento del merito e la valorizzazione del talento per creare eccellenze, dovrebbe essere un’abitudine consolidata, sempre e non solo congiunta alla casualità attivata dalla sorte. Purtroppo ancora oggi, in ogni ambito professionale, travalicando i confini geografici, l’appartenenza politica, religiosa o sociale, la definizione di merito ha perso una parte rilevante di senso a favore di una accezione più ampia dove, la diffusione del favoritismo dilagante a discapito di una vera concezione meritocratica, ferisce e impedisce la crescita dei più meritevoli.
Riconoscere il merito significa dare un taglio a tutto ciò che non ci rende eguali sulla linea di partenza. Significa negare l’ereditarietà dei privilegi, il familismo, il sistema dei favori e delle raccomandazioni. Significa, insomma, parlare di eguaglianza. Ma cosa accade quando l’eguaglianza è solo un mito? Il riconoscimento del merito è un taglio radicale con tutto ciò che non ci rende eguali sulla linea di partenza, alla nascita. Nega l’ereditarietà dei privilegi; nega il familismo; nega il sistema dei favori e delle raccomandazioni; maledice chi salta la fila perché conosce qualcuno che conta. Forse afferma che l’eredità debba essere pesantemente tassata, in modo da togliere il privilegio dei pochi e ridistribuire le risorse ai molti. Con il principio siamo tutti d’accordo. Ma non entriamo troppo in dettaglio. Il merito ci parla di eguaglianza, ma l’eguaglianza, si sa, è un mito: nasciamo belli o brutti, sani o malati, persino di sesso diverso. E allora? Allora il principio va rimodulato, riportato nei suoi confini più appropriati. Il discorso si fa complicato, forse troppo. “Ciascuno ha pari diritto di realizzare se stesso” E poi, a guardare con più attenzione, se devo realizzare me stesso, la mia felicità, forse non sono in competizione con nessun altro. Forse non avrei alcun motivo di accettare la logica della competizione. Potrei preferire di starmene in pace a guardare le nuvole che cambiano di forma. Già, invece devo lavorare, devo far fronte ai doveri di solidarietà, pagare le tasse. Ecco che i miei diritti – di cui il merito è la misura – diventano improvvisamente dei doveri. Si passa così bruscamente dal “a ciascuno secondo il suo merito” (i diritti, appunto) al “da ciascuno secondo le sue possibilità” (che profuma di tassazione e di doveri). Perché – ci dicono – non ci sono diritti senza doveri; perché viviamo in una società da cui è assai rischioso recedere; perché solo nella società è possibile che l’essere umano possa realizzare pienamente se stesso. Il merito garantisce l’eguaglianza di quanti in quella società vogliono vivere e realizzarsi, non di chi pensa di sottrarsi alla fitta trama di doveri che avvolge chi vi abita. Il merito è selettivo; anzi, è una misura relativa, che regola i rapporti tra chi nella società accetta di vivere e di seguirne le regole.
Sempre più complicato venire a capo delle applicazioni del principio. In tanta confusione soccorre però l’autorità. È l’autorità che decide che gara si corra, ne stabilisce la lunghezza e i premi per il vincitore. È vero, ognuno ha il diritto di realizzare se stesso, ma solo a parole. La società ha idee precise sulla competizione che ci attende: ha incaricato la scuola di organizzare una gara ben definita e unica per tutti, che inizia sin dai primi anni di vita, e che non bada molto a quale sia la mia vocazione o il tuo te stesso. Ormai la gara è bandita, le regole ci sono e sono stringenti, parteciparvi è un obbligo (è o non è la scuola dell’obbligo?) se nella società vuoi restare: poco importa l’handicap con cui parti, è l’Invalsi che ti misura all’arrivo; sono i voti della pagella che rilevano la tua posizione a ogni giro, gli stupidi test d’ingresso che decidono che studi universitari puoi intraprendere (alla faccia di quello che volevi realizzare di te), il voto di laurea che pesa se vuoi proseguire nel dottorato, un altro traguardo che ti darà una marcia in più nella ricerca di un posto di lavoro adeguato. Adeguato? Sì, adeguatamente retribuito. Alla fine ci sono i soldi, l’unica misura che valga nel mercato, il campo di gara in cui ogni competizione si colloca (concorrenza si chiama) e ogni concorrente (competitor) viene misurato. È con quel metro che si misura il successo, quanto hai “meritato” nel corso della vita. E come già detto, è giusto che ciascuno abbia quello che merita; ingiusto che ottenga un bene, o soffra un male, che non merita. Questa è l’idea di giustizia di Aristotele e del senso comune. Michael Sandel obietta che la meritocrazia pretende di premiare il merito ma produce arroganza e umiliazione. L’accusa è infondata. A scuola, all’università, nel lavoro, nello sport non possiamo fare a meno di riconoscere e premiare il merito. La meritocrazia ha un volto umano. Si dice che in una società meritocratica i redditi seguano i meriti. Ma in alcune società contemporanee che si presentano come meritocratiche le differenze di reddito sono enormi. Com’è possibile che alcuni abbiano meriti superiori ad altri di centinaia di volte? Da qui prende oggi le mosse il rifiuto del programma meritocratico che nella seconda metà del secolo scorso era la sostanza del ‘sogno americano’ ed era sottoscritto dal laburismo britannico e dal socialismo riformista europeo.
Chi ha meriti riconosce anche i meriti altrui, s’intende quelli genuini e reali. Ma colui a cui manchi ogni pregio e merito desidera che non ce ne siano affatto: vederli negli altri è come venir disteso sull’eculeo; la pallida, verde, gialla invidia gli rode il cuore: vorrebbe annientare e sradicare tutti coloro che sono personalmente privilegiati; e se invece li deve purtroppo lasciar vivere, ciò può essere solo alla condizione che essi nascondano i loro pregi, li neghino del tutto, anzi li abiurino. Questa è dunque la radice dei così frequenti panegirici in onore della modestia. Per riconoscere e far valere volontariamente e liberamente il valore altrui, bisogna possederne di proprio. Su ciò si fonda la necessità della modestia nonostante ogni merito, come pure l’esaltazione sproporzionatamente grande di questa virtù, che sola, di tutte le sue sorelle, viene ogni volta aggiunta, da chiunque ardisca elogiare un uomo che si sia distinto in un qualsiasi modo, al suo elogio, per conciliare e placare la collera dei mediocri.
Maria Ragionieri