Era Confucio a sostenere come bastasse scegliere un lavoro che avremmo amato, per ritrovarsi nella condizione di non lavorare neppure un giorno nella vita. Massima filosofica in parte condivisibile, anche se va detto che anche i più fortunati di noi – cioè quelli che non fanno un compito usurante, che se lo sono potuto scegliere e ne traggono grandi soddisfazioni – almeno qualche giorno nella vita sarebbero rimasti volentieri a poltrire a letto invece di andare a lavorare.
Ma questo non toglie che il lavoro sia centrale nella vita dell’individuo: perché gli permette letteralmente di vivere. Molto più dell’agognata felicità che a dispetto di quanto si professi non ci sostenta. Per questo i nostri padri costituenti l’hanno messa nell’incipit dell’art. 1. della nostra Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. La prima cosa uscendo dalla dittatura era ricominciare lavorando. Veniva anche prima di tutti gli altri nobilissimi principi, di tutto il resto. E nel resto già nell’art. 4 ci sono tornati su per precisare come questo diritto individuale si trasformi in un valore della comunità nel suo complesso: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. D’altronde, se io sono un buon medico, salvo la vita o curo altre persone, magari un insegnante, un netturbino, un poliziotto. Ma tutte sono ugualmente nobili, da quelle tradizionali a quello che concorrono al futuro. Come lo sono le professioni ambientali che più volte abbiamo presentato e spiegato in questa rubrica.
Ma il lavoro porta con sé due grandi tematiche: la prima è quella legata alla sua ricerca, la seconda è la sicurezza svolgendolo. Il tema della disoccupazione è spinoso e noi come Italia lo sappiamo bene, specie in alcune zone del nostro Paese e quanto questo alimenti il lavoro nero, lo sfruttamento, senza contare quanto certe condizioni favoriscono la criminalità organizzata. Il numero di incidenti sui luoghi di lavoro è altissimo: un prezzo che paghiamo perché spesso quello che è l’obiettivo del datore in un’attività lavorativa sia evitare o quanto meno ridurre l’esposizione per i lavoratori al rischio di infortuni/incidenti, come di contrarre una malattia professionale. Per questo il legislatore ha approntato il Decreto Legislativo 81 del 9 aprile 2008 – il Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Prevede una serie di interventi per tutelare l’incolumità e la salute dei lavoratori, limitando l’utilizzo di sostanze pericolose; facendo controlli sanitari periodici dei lavoratori; informando e formando i lavoratori in materia di sicurezza. In più a vigilare sull’effettiva efficacia e applicazione sono anche gli stessi colleghi. Il datore di lavoro ha diversi compiti: corretta informazione sui pericoli; formazione; sorveglianza e messa in sicurezza degli ambienti per prevenire infortuni o malattie professionali dei lavoratori. Dal canto proprio il lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza, e, allo stesso tempo, quella dei colleghi. La formazione in particolare verte sulla gestione e la valutazione del rischio sul luogo di lavoro e può essere suddivisa in quattro punti: il primo prevede l’individuazione e la registrazione dei pericoli; poi la loro valutazione per determinare il livello di rischio; il terzo la definizione delle misure di prevenzione e protezione e infine la loro attuazione.
Solo un corretto comportamento e il rispetto della legge onora il lavoro e tutte le persone coinvolte nel processo, che in fondo tutte quante ognuna per il proprio ruolo hanno un ruolo per garantire e garantirsi sicurezza che vuol dire, questa volta umanamente e – in senso buono – banalmente, futuro.
Angela Oliva