Il termine oligarchia si ritrova nella Bol’šaja sovetskaja enciklopedija, la più grande enciclopedia Russa. Oligarchia, dal greco – governo di pochi, da oligo pochi e archè potenza è la forma di governo esercitata da un piccolo gruppo di persone, di solito il più economicamente potente. Oligarchia è anche chiamato il gruppo dirigente stesso. L’utilizzo del temine oligarchia è stato riscontrato inizialmente tra antichi autori greci come Aristotele o Polibio, intendendo una forma di governo che è il risultato di una degenerazione dell’aristocrazia. Il primo abbozzo di oligarchia lo si può riscontrare in Urss con la leadership che governava il Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Il Partito era organizzato secondo una gerarchia di potere e coloro i quali stavano al vertice controllavano qualsiasi aspetto della vita politica, sociale ed economica russa. Questo tipo di oligarchia era dunque strettamente legato al semplice potere, non tanto al potere finanziario. Con l’avvento di Gorbačëv, a metà anni Ottanta, fu chiaro che questa struttura oligarchica che deteneva il potere in Urss, andava esaurendo le sue possibilità. Ciò grazie alla riforma politica di glasnost’ che sempre più aspirava ad una riorganizzazione delle istituzioni in grado di limitare l’intervento dei politici soprattutto nelle decisioni di tipo economico. Durante gli anni di Eltsin, nel periodo post-sovietico, nonostante i cambiamenti apportati dalla sua politica di governo, quali, la liberalizzazione dei prezzi e la privatizzazione delle imprese statali, il potere risultava essere ancora essenziale soprattutto in ambito economico, per coloro che volevano trarre profitto dalla privatizzazione e dal libero mercato. I nuovi manager cercarono “agganci” politici per avviare le loro attività o cercarono di diventare loro stessi politici per favorire i propri interessi. A partire dalla metà degli anni Novanta, nella nascente Russia post sovietica, assistiamo alla scalata di personaggi quali: Michail Chodorkovskij e Vladimir Gusinskij, per i settori dell’import/export delle auto e nell’ambito dei media, Anatolij Čubajs, fautore della privatizzazione e vice Primo Ministro della Federazione Russa dal 1992 al 1994 e, infine, Juri Lužkov sindaco di Mosca dal 1992 fino al 2010. Questo gruppo di oligarchi, affermatosi a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, è diventato famoso anche in Occidente, grazie ai media e alle cronache passate e recenti. Gli studi scientifici furono la base per molti dei nuovi oligarchi russi qui citati, in quanto si concentravano principalmente sulle questioni pratiche anziché ideologiche, ovvero cosa funzionava e cosa non funzionava nell’economia russa nella gestione dello Stato. Alexander Smolenskij nel 1989 dopo aver fondato precedentemente una cooperativa, avvalendosi della “Legge sulla cooperazione in Urss”91 emanata in data 26 maggio 1988, durante il governo Gorbačëv, decise di fondare una propria banca, registrandola con il nome Stolichnij Bank, come tale legge consentiva. Michail Chodorkovskij nel 1989, in seguito al successo ottenuto grazie ad un business di importazione di computer in Russia, fonda con altri partner la banca Menatep, una delle prime banche commerciali di cui divenne ben presto il capo. La Banca Menatep divenne presto una banca autorizzata che svolgeva la funzione di intermediario per il trasferimento dei fondi governativi alle imprese e viceversa, garantendo a Chodorkovskij e ai suoi partner un alto profitto. Anche Rosprom, altra holding company, precursore del Gruppo Menatep Limited, venne fondata da Chodorkovskij e dai suoi partner nel 1995 con la “licenza per l’esecuzione di transizioni bancarie in Russia”, come si può apprendere dal sito della Banca che dal 2008 è stata associata al Gruppo Marfin Popular Bank di Cipro. Vladimir Gusinskij aprì nel 1988 una cooperativa la Infeks, il cui scopo era quello di aiutare gli investitori stranieri che volessero attivare un giro d’affari nell’Unione Sovietica. A fine anni ottanta fondò Most, una holding company, che grazie alle intercessioni di Lužkov, allora sindaco di Mosca, si occupava della restaurazione di molti edifici malandati della città. Sempre con l’appoggio di Lužkov, aprì una banca, la Most Bank, che emerse presto come una delle banche leader russe, permettendogli di ricavare molti profitti dalle ristrutturazioni, pagando pochissime tasse. Grazie ad un decreto firmato dal presidente Eltsin che cedeva allo stesso Gusinskij il quarto canale della tv russa, nell’ottobre del 1993 fondò NTV, canale televisivo indipendente e il giornale indipendente denominato Segodnja. La maggior parte degli oligarchi cominciò la loro attività economica in Unione Sovietica, sul finire degli anni Ottanta. Con l’emanazione della Legge sulla cooperazione in Urss, introdotta nel 1988, vi fu il fiorire delle cosiddette “attività non proibite”. La legge permettendo la creazione di qualsiasi attività non espressamente proibita, contribuì ad un totale rovesciamento della condizione precedente. In questo modo venne a crearsi una certa libertà personale degli individui più estroversi, più ingegnosi, più coraggiosi, quelli consapevoli che tale legge rappresentava un’opportunità del tutto nuova che avrebbe contribuito in qualche modo al rovesciamento dello Stato sovietico. Tale legge permise la creazione di banche private che ebbero spesso ruoli fondamentali durante gli anni della privatizzazione delle industrie statali. Gli oligarchi all’epoca per arricchirsi non agirono infrangendo la legge, ma semplicemente aggirandola, grazie alle loro conoscenze che molto spesso si trovavano a rivestire cariche importanti nel governo stesso. In questo modo gli oligarchi russi degli anni Novanta, ottennero sempre più profitto dalle loro attività, senza pensare che la loro ricchezza non proveniva soltanto dallo Stato ma dalle persone normali le quali non avendo avuto l’opportunità di utilizzare i buoni del programma di privatizzazione erano cadute in miseria. I casi di Berezovskij e di Chodorchovskij hanno fatto capire che queste persone non si sono accontentate di arricchirsi, ma hanno cercato di espandere la propria influenza in altri settori, ad esempio quello delle telecomunicazioni, della politica ed in settori strategici quali quello energetico, metallurgico e dei trasporti. Il controllo di questi settori significava manovrare un potere capace di influenzare pesantemente tutte le attività sia pubbliche che private interne alla Russia e di causare significative ripercussioni sul più ampio scenario internazionale. Forse proprio questa continua ricerca di potere ha portato alcuni ad un contrasto con Putin e il potere del Cremlino e poi al declino.
Un viaggio nel potere segreto degli oligarchi, un gruppo ristretto di persone spesso legate a Putin e connesse tra loro che ha conquistato un’influenza in Italia decisamente allarmante.
Secondo studi recenti la Russia ha la quota più alta al mondo di dark money, soldi opachi detenuti all’estero: un trilione di dollari. Si stima che un quarto di questi sia collegato a Vladimir Putin e a suoi stretti associati, l’Italia è uno dei pezzi di questo grande gioco: gli oligarchi russi in Italia investono e comprano grandi proprietà tessono rapporti dei servizi segreti italiani sugli investimenti fatti per sostenere operazioni di influenza politica, la ricostruzione puntuale dei giganteschi flussi di denaro dalla Russia verso il nostro paese.
Da circa cinquant’anni, quasi in ogni angolo del pianeta, la ricchezza viene distribuita in maniera sempre più spesso colando fortemente l’attuazione del principio democratico di eguaglianza politica. E il successo di movimenti stigmatizzati come “populistici” è insieme causa ed effetto di una rinnovata aspirazione a un governo ristretto, riproposto per lo più in chiave “epistocratica”. Non è dunque difficile spiegare perché il problema dell’oligarchia sia tornato oggetto di dibattito pubblico. Il criterio espositivo si basa sulla convinzione che tutte le posizioni prese in esame, quelle ricostruite e quella proposta, siano in ultima istanza riconducibili ai significati classici dell’oligarchia, tramandati nel corso dei secoli e ancora rinvenibili, sebbene in forma ovviamente aggiornata. Prima di entrare nel vivo dell’analisi, sarà quindi necessaria una breve ridefinizione storica dell’oligarchia, nozione forse oggi sottoteorizzata. Storicizzare la sua genesi consentirà di distinguere tre significati principali, che pure tendono a slittare l’uno nell’altro: governo dei ricchi, regime corrotto, comando di pochi. La prima accezione, rilanciata da Jeffrey Winters, è stata riconosciuta come uno dei punti dolenti della società capitalista, la seconda è stata riscoperta da neorepubblicani radicali, come Camila Vergara e da marxisti di ispirazione foucaultiana, la terza è compatibile con una lettura realista, non necessariamente minima, della democrazia, e con un ripensamento democratico, e specificamente progressista, della lezione elitista. Ολιγαρχία Il termine oligarchia appartiene al lessico politico forgiato nell’antica Grecia. Il concetto si è progressivamente definito tra il V e il IV secolo a.C., in stretta correlazione con le vicende istituzionali e militari di Atene e le prime tappe attraverso cui tale nozione fu pensata hanno determinato i modi in cui essa è stata recepita nei secoli a venire. Nella fase iniziale della guerra del Peloponneso, il lemma era impiegato per designare il regime di Sparta, in contrapposizione a quello di Atene. Erequata, tra persone e tra territori.
L’oligarchia rappresentava l’alternativa più credibile alla democrazia mentre i regimi dispotici erano considerati adatti al mondo orientale. Il suo significato etimologico era comando di pochi, ma la natura dei governanti restava indeterminata. Di sicuro, l’oligarchia si distingueva nettamente dalla democrazia, un regime che la propaganda avversaria voleva inesorabilmente consegnato allo strapotere violento della massa non possidente , facile preda dei demagoghi. L’autore anonimo della Costituzione degli ateniesi aveva avvertito che, non potendo essere riformata, la democrazia doveva essere abbattuta e sostituita: sarebbe accaduto nel 411, dopo la disfatta della spedizione ateniese in Sicilia, e nel 404, con la resa definitiva di Atene a Sparta. Il Consiglio dei Quattrocento si rivelerà un’esperienza fallimentare, come quella, sette anni più tardi, dei Trenta tiranni. Pur condividendo la necessità di sovvertire la democrazia, gli oligarchi divergono sull’individuazione dei criteri di accesso ai posti di comando, nonché sulle corrette modalità di esercizio del potere, sulla sua istituzionalizzazione e sulla sua limitazione. I fatti si incaricano di deludere chi voglia presentare l’oligarchia come un’aristocrazia. Viene smentita la pretesa che essa rappresenti, non già il comando di pochi, ma anche e soprattutto il governo dei migliori. “Nell’oligarchia”, aveva d’altronde ammonito Dario nel dialogo con Megabizo e Otane narrato da Erodoto “sorgono gravi inimicizie personali, perché, volendo ciascuno primeggiare e prevalere con le sue convinzioni, nascono grandi ostilità, e da queste le discordie, e dalle discordie le stragi”. Nel 403, quando Trasibulo restaura la democrazia popolare ad Atene, sulla nozione di oligarchia pesa ormai il discredito seguito ai colpi di stato del 411 e del 404. Messo alla prova, il regime oligarchico aveva dimostrato che il suo principio qualificante era il privilegio censitario, non l’eccellenza nelle virtù etiche il coraggio, l’onestà, la saggezza, né il possesso di speciali competenze tecniche quindi la capacità di amministrare la città. L’oligarchia si era rivelata una mera plutocrazia, semplicemente il governo dei ricchi. Ecco perché, nel corso del IV secolo a.C., il pensiero politico ateniese vedrà nell’oligarchia un regime corrotto. Gli attacchi alla democrazia, che nel 399 condannerà a morte Socrate, non si placheranno, ma le istanze antidemocratiche faranno appello, non più a una concreta alternativa oligarchica, bensì a una politèia ideale. Nella Repubblica, Platone descrive una città perfetta, di cui prevede, in seguito all’eventuale riappropriazione privata delle risorse da parte dei governanti, la corruzione verso forme politiche deteriori. L’oligarchia è una costituzione ingiusta, in cui gli uomini di potere bramano l’accumulazione della ricchezza: scaturisce dalla crisi della timocrazia, nella quale il conflitto riguarda la gloria, e prelude alla democrazia, dove regna l’assoluta anarchia, premessa a sua volta della tirannide, destinata a reprimere il dissenso nel sangue. Nella Politica, Aristotele sostiene che la costituzione decente è data dalla commistione tra due forme di governo degenerate, oligarchia e democrazia. E rielabora l’originaria contrapposizione tra queste ultime nella tesi secondo cui tutti i regimi sono in fondo riconducibili ai due più diffusi. Ma qual è l’elemento decisivo che li distingue? Non l’opposizione formale tra i pochi e i molti, bensì quella sostanziale tra i ricchi e i poveri. L’oligarchia, in cui i pochi ricchi governano per il proprio vantaggio personale, è la versione degenerata dell’aristocrazia, in cui i pochi saggi governano in vista del bene comune. Dopo Platone e dopo Aristotele, la parola oligarchia sarà per lo più adoperata per indicare il governo corrotto dei pochi ricchi. Sarà ancora così nell’Ottocento, quando tale significato si adatta alle società del capitalismo industriale.
Il Novecento ha riscattato il valore etimologico dell’oligarchia, come comando di pochi. E’ sbagliato confondere l’idea di élite con quella di oligarchia, malgrado entrambe indichino la dominazione di una minoranza di potere sulla maggioranza subordinata. Perché l’élite può essere di vario tipo politica, tecnica, intellettuale e dipende dalla posizione apicale in una struttura gerarchica formale o informale, pubblica o privata oppure dalla capacità di mobilitazione in virtù di una forza coercitiva o ideologica, mentre l’oligarchia è sempre di natura economica e dipende dalla capacità di far leva, per difendere i propri interessi, su enormi riserve di ricchezza personale l’oligarchia una forma di governo, alternativa ad altre sulla base del numero dei governanti nonché della modalità e dell’obiettivo nell’esercizio del potere politico. L’oligarchia presuppone la stratificazione materiale della società e indica semplicemente l’insieme dei super-ricchi, i quali cooperano per proteggere le proprie gigantesche fortune, questo è l’obiettivo fondamentale, di fronte al quale tutti gli altri divengono secondari. In sintesi, ciò che rende oligarchici i super-ricchi è la difesa dei propri redditi e dei propri patrimoni. Il loro scopo è sempre lo stesso, cambiano i modi in cui lo perseguono. Per comprendere i vari tipi di oligarchia, Winters suggerisce di combinare due misure: il grado di coinvolgimento degli oligarchi nel sistema di protezione della proprietà e il grado di collegialità nel sistema di governo. Su queste basi, sarebbero identificabili quattro tipi ideali. Le oligarchie in cui i super-ricchi proteggono personalmente i propri averi possono essere “belligeranti” oppure “dirigenti”, a seconda che vi sia una collegialità scarsa come nelle faide tra clan oppure più accentuata come nell’antica Atene e nella Roma repubblicana. Le oligarchie disarmate possono essere “sultanistiche” oppure “civili”, a seconda che il sistema coercitivo sia accentrato nelle mani di un singolo come nelle Filippine di Marcos oppure gestito in modo impersonale da uno Stato moderno come negli Stati Uniti e a Singapore. Insomma, l’oligarchia affligge ogni regime politico, o quasi. Benché pervasiva e durevole, può infatti essere evitata. Ma grazie alle autocrazie, non alle democrazie liberali. L’Unione Sovietica e la Cina comunista, ad esempio, hanno contrastato le diseguaglianze economiche e osteggiato in special modo la cessione di potere politico ai super-ricchi. Ciò naturalmente non significa che tali sistemi siano liberi dai rapporti di dominazione, ma questi dipendono più dalla rigidità del controllo di partito che dall’accumulo di enormi averi privati. Nelle autocrazie, in sintesi, dominano le oligarchie politiche, non quelle economiche. Il significato etimologico dell’oligarchia, come comando di pochi, è stato riabilitato nel corso del Novecento dai teorici cosiddetti “elitisti”. Questi ultimi hanno rilevato come le società di ogni tempo e luogo siano tendenzialmente soggette a una ristretta cerchia di potere, che domina o egemonizza il resto della popolazione tramite ideologie e istituzioni di volta in volta diverse. Anche la democrazia di massa, per funzionare, esige organizzazione e nessuna organizzazione, sia pure ispirata a ideali socialisti o mossa da impulsi spontaneistici, può fare a meno di scindersi tra una base disorganizzata e un vertice organizzato. La democrazia diretta ha numerosi vantaggi. La decisione presa dalla maggioranza è la forma migliore per appianare i conflitti. Ma ha un difetto – il rapporto con le minoranze. Sorge un problema serio quando gli interessi della maggioranza si scontrano con quelli della minoranza. L’esistenza di questo problema è noto ai giuristi, quando si occupano della questione relativa al rispetto o al non rispetto dei diritti umani a seguito di decisioni della democrazia diretta. La democrazia non è fine a se stessa. È il governo che è chiamato a realizzare l’obiettivo della società antropocentrica, cioè la libertà. Nella fattispecie, la libertà della democrazia copre la totalità della vita sociale degli uomini. Per schematizzare, potremmo dire che la democrazia è chiamata ad istituzionalizzare il dominio sociale così che la libertà dei suoi membri si concretizzi nei campi della vita individuale/privata, di quella socio-economica e di quella politica. L’obiettivo della libertà totale può essere conseguito solo mediante il governo democratico. Questa forma di governo è chiamata ad attuare la libertà oltre al campo individuale, in quelli del sistema socio-economico e politico. La sostanziazione individuale dell’uomo può essere conservata anche in un ambiente costituzionale che accetta l’appartenenza del sistema alla proprietà (diversificata) e in ciò si allontana dalla società dei cittadini, a patto che il possessore del sistema consideri tra le sue politiche l’acquisito della libertà individuale, cioè le previdenze istituzionali, valoriali e via dicendo che la salvaguardano, e una redistribuzione della ricchezza in grado di sostenerla.
In realtà, però, questo azzardo si compie a condizione del mantenimento di un delicato equilibrio tra la società dei cittadini e i settori del sistema, in quanto le politiche degli ultimi passano attraverso relazioni di forza che si sviluppano nel contesto della dinamica sociale. La società rimane privata e trova punti di incontro o di dialogo con i settori del sistema al di fuori di questo, su una base extra-istituzionale.
La libertà politica risale all’epoca della maturità antropocentrica dell’uomo sociale, inoltre l’ordine di arrivo dell’uomo sociale alla libertà è predeterminato, secondo il principio per cui la libertà individuale viene prima per definizione e la libertà sociale e quella politica seguono nella misura in cui l’ordine dei governi segue, l’ordine di sviluppo dei loro obiettivi, nella fattispecie della libertà, è evidente che il tempo della democrazia coincide con quello della maturità antropocentrica, cioè della libertà totale. La democrazia diretta, attuata mediante le strumentazioni digitali, un autentico progresso istituzionale, che consente al singolo cittadino il protagonismo politico di cui sarebbe privato dai regimi dotati di organi di intermediazione, come ad esempio lo stesso parlamento ma l’autogoverno affascina ma contiene un problema concettuale: la democrazia non è decisione, è discussione per ottenere un compromesso. Altrimenti è tirannia della maggioranza, dominio della folla. Poter risolvere la crisi -politica, economica, culturale- in cui siamo precipitati semplicemente attribuendo tutto il potere al popolo è più che illusorio: è pericoloso”. L’opinione pubblica nelle democrazie è spesso portata a sottovalutare i rischi per la sicurezza del Paese. Questo è tanto più vero nel caso delle democrazie europee, in virtù della «lunga pace» che fu propria del periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla fine della guerra fredda. Esaurito il confronto fra Stati Uniti e Unione Sovietica e finita la politica dei blocchi, le minacce alla sicurezza sono diventate più diffuse. Con la ripresa della competizione fra le grandi potenze, le guerre civili che insanguinano certi Paesi extraoccidentali e i cui effetti investono le nostre democrazie, e non ultimo con le azioni dei gruppi terroristici, i rischi oggi si sono moltiplicati. Tra l’altro non bisogna dimenticare che le democrazie sono solite risolvere pacificamente i conflitti interni e ciò può renderle impreparate quando si trovano a fare i conti con esplosioni di violenza collettiva o con minacce esterne. La contraddizione insita nell’ideale democratico occidentale, che si regge sul sogno impossibile di coniugare le pratiche democratiche con i meccanismi coercitivi dello Stato una contraddizione che impedisce la creazione di democrazie nel senso pieno del termine, consentendo piuttosto la nascita di «repubbliche» dotate di pochi elementi democratici. Il che spiega come mai in Occidente ci siano sempre state sperimentazioni sociali volte a riaccendere le istanze più autentiche della pratica democratica e se in passato i modelli di democrazia scaturiti dalle rivoluzioni americana e francese si sono ispirati, più che all’Atene classica, alle navi pirata, ai nativi americani o alle comunità di frontiera popolate da liberti, oggi sono i movimenti di critica radicale dell’esistente, fondati su pratiche orizzontali e modalità di condivisione, a mettere in discussione le basi della nostra democrazia incompiuta. E il futuro della democrazia sta proprio lì. Nell’era post-ideologica della globalizzazione – tra crisi dell’economia e nodi irrisolti della rappresentanza politica – molti spettri continuano ad aggirarsi ai margini e negli interstizi della cultura europea. Fantasmi e relitti di età recente depositati nell’archivio delle grandi narrazioni declinanti. Ma anche spettri di età più remota: voci, figure e storie che vengono dalla Grecia classica. Che cosa fanno intendere questi spettri antichi? Come possono essere consapevolmente evocati perché agiscano segnando l’apertura di un contro-tempo e di un controdiscorso nello scenario della crisi, perché producano una modificazione dello sguardo? Partecipazione politica, natura della legge, distribuzione della ricchezza, modelli educativi, conflitto tra generazioni, donne e soggetti alternativi, linguaggi della comunicazione e del potere, strategie del rapporto tra governanti e governati, costruzione di un centro condiviso in cui riconoscersi sono i temi che qui si intrecciano nel confronto con i testi e gli autori della cultura greca, da Solone a Tucidide, da Eschilo a Aristofane, da Eraclito a Platone. Dal desiderio della democrazia ai sentieri della sapienza iniziatica, la traiettoria dell’evocazione costringe a riflettere sui modi e sul senso di abitare la polis.
Maria Ragionieri