
Intervista a Savino Monterisi
L’ultima festa della terra mi permette di incontrare chi racconta l’amore per i luoghi, Savino Monterisi, col suo “Infinito restare”, si lega alla terra, ma in senso più ampio, a quella che abitiamo. Lui racconta un sentito radicamento verso i posti che abitano l’anima, le terre che involontariamente condizionano chi parte, chi arriva e chi vi fa ritorno. Per me, sono i posti del cuore. Infinito restare non esprime solo la necessità di tornare ad animare territori soggetti allo spopolamento, le aree interne dell’Appennino, ma esplicita anche un sentire più profondo, materico, l’intima fascinazione verso la propria terra, comprendendone tutte le sfumature: dalle tangibili a quelle spirituali. Attraverso un lucido scambio di idee con Savino, anch’io mi scopro viaggiatore in cerca di comunità, lungo un infinito restare.
Virginia – “La nostra è una ‘restanza’ che si misura a fatica con una cattiva gestione del patrimonio locale, fagocitato dal capitalismo sfrenato. Data la mancanza di una visione strategica da parte della politica, noi giovani avvertiamo un disagio nel vivere i nostri posti, nell’abitarli, conducendo una vita dignitosa. A me viene detto spesso che tale disagio è derivante dall’egoismo giovanile, che per noi, non è possibile scegliere, siamo costretti ad accettare ciò che ci è dato”.
Savino – “Ci sono tante situazioni che non vanno, criticarle non significa lamentarsi, ma affermare un disagio verso questo stato di cose; ed è importante soprattutto agire affinché le cose cambino. Nessuno può dire che non possiamo lamentarci, perché ne abbiamo tutto il diritto, io poi con i miei scritti, con i pensieri e con le azioni, cerco coerentemente di cambiare l’ordine delle cose che per me non funzionano. Non credo affatto nel motto su cui è imperniata la dottrina del neoliberismo: ‘There is not alternative’; né che la società è data così. No, la società è in continuo cambiamento da sempre, e sta a noi farla andare nella direzione che vogliamo”.
Virginia – “Sei tornato perché nella città ti mancava la dimensione umana, io avverto la stessa mancanza nel paese in cui vivo e auspico una sorta di comunità che sia costituita principalmente su un sentire comune, sui sentimenti e sulle persone, prima di ogni altra cosa. Anche per me Vito Teti è stata una chiave interpretativa, lui stesso parla della capacità di ridisegnare una cartografia dei sentimenti. Nel tuo libro fai riferimento alle poesie di Carmine Valentino Mosesso, incentrate, appunto, sui sentimenti delle comunità locali; c’è inoltre un capitolo in cui affronti ‘la morte’ nei paesi: quando le persone avevano un peso, ed ogni perdita, significava rinunciare a un pezzo di vita. Questo è ciò che manca, una comunità dei sentimenti”.
Savino – “Credo che le comunità siano sempre fondate sui sentimenti, il problema è comprenderne la natura. Ci sono sentimenti buoni e meno buoni. Anche l’avidità è mossa da un sentimento, che tuttavia non è condivisibile. Penso che il lavoro più urgente sia, oggi, quello di ricostruire le comunità. È necessario in tanti paesi, e parlando della mia realtà, Sulmona, vedo una comunità completamente sfilacciata. Posso dire, tuttavia, che tante esperienze in Appennino mi insegnano che sulla comunità, soprattutto nei luoghi molto piccoli, si lavora più facilmente realizzando degli obiettivi, piccoli risultati, più facilmente che in città dove la comunità, diluita in un contesto più ampio, si perde. Lavorare con la comunità: questa è la vera urgenza della vita nei paesi, e anche il nostro agire deve andare in quella direzione. Chiarisco, si tratta di un lavoro complicatissimo, ma non essendo un processo che ha un inizio e una fine, e dato che ne attraversiamo solo una parte, il nostro obiettivo è spingere in questo senso. Unitamente ad un lavoro sulle comunità locali, è possibile pensare a reti o alleanze tra esperienze nei paesi, nell’ottica della sopravvivenza, creando col tempo un movimento più ampio di agire e di pensiero comune”.
Virginia – “In un passo del libro prendi le distanze da un genere di turismo che, utilizzando un linguaggio confezionato ad arte, contribuisce a trasformare i luoghi, nell’immaginario collettivo. Li svuota della vera essenza, compiacendo invece i desideri del turista. Volendo essere viaggiatori e non turisti, quale dovrebbe essere il linguaggio da utilizzare per promuovere le aree interne?”.
Savino – “Parlando di aree interne è necessario utilizzare un linguaggio il più possibile antiretorico, perché la narrazione che ha dominato il dibattito pubblico su questi luoghi, negli ultimi decenni, è stata sempre stereotipata. Ci hanno detto: ‘studia e vai fuori’, considerando i nostri paesi posti dai quali si poteva soltanto partire; per tutta risposta oggi li dipingono come luoghi idilliaci. Questo non è accettabile, non è vero che bisogna andare via per avere una vita dignitosa o per essere felici; la narrazione dominante ha descritto le aree interne come i luoghi del margine e dell’abbandono, dove vivono gli sconfitti della globalizzazione. Ed è altrettanto giusto ammettere che i paesi non sono luoghi perfetti, in essi vi sono tante difficoltà e contraddizioni; anche avere a che fare con i paesani è un lavoro faticoso, non certo una passeggiata, ma necessario. Hanno ripetuto per anni che in città si trova lavoro, ma quale? Un lavoro precario e sottopagato? Dunque, anche le città non sono la favola che raccontano, così come chi torna non è un eroe, non più di chi parte e se ne va con un peso sul cuore. Il linguaggio allora, deve smontare le retoriche e raccontare le cose per come stanno. Abbiamo un sistema che produce disuguaglianze, anche territoriali, tra città ed entroterra, quello che dobbiamo fare è provare a combatterle. Ci hanno raccontato che l’Appennino è un luogo di marginalità, ma non è così. Oggi in Appennino si può autoprodurre e auto consumare energia pulita attraverso le comunità energetiche, perché, data la piccola estensione territoriale, alcuni paesi si prestano naturalmente a questi impianti. Dunque, in un momento di difficoltà di approvvigionamento energetico possiamo essere un luogo di produzione di energia pulita, orizzontale e senza lo sfruttamento delle multinazionali. Penso allora che siamo un luogo di nuova centralità. Del resto, se allarghiamo il focus oltre gli ultimi cento anni, arco temporale nel quale l’Appennino inizia a spopolarsi, se torniamo indietro scopriamo che l’Appennino è il centro politico, economico, culturale e sociale di questo Paese; è un luogo di grande fermento artistico, di idee; è un ponte tra la cultura mediterranea e quella mitteleuropea. Allora siamo sicuri che il nostro è un luogo di marginalità? O soltanto negli ultimi cento anni il capitalismo delle industrie ha svuotato questi posti e li ha relegati alla marginalità? C’è ancora spazio per recuperare una nuova centralità? Io credo di si. A Castel del giudice Carmine costruisce un mulino di comunità, pianta grani antichi sul territorio, e la farina che produrrà sarà venduta alle attività locali, implementando una filiera a chilometro zero, tutto in momento di difficoltà per l’approvvigionamento del grano. Nel libro riporto tutte queste realtà per far comprendere che possiamo cominciare a raccontare un Appennino diverso, e nell’ottica del linguaggio sottolineare l’importanza delle narrazioni. Tutti coloro che tengono alle aree interne possono portare avanti una narrazione differente da quella dominante, che vada anche contro le retoriche buoniste volte a descrivere un Appennino che non esiste”.
Virginia – “Nell’approccio alla storia dei nostri luoghi spesso rifiutiamo il sentimento nostalgico. Non si può avere nostalgia di una vita precaria, io però, penso che non ci sia nulla di male nel rimpiangere la vita di un tempo, perché, nonostante la povertà, i nostri antenati potevano contare su sentimenti autentici, sulle persone. Dalla nostra storia ereditiamo saperi e conoscenza, ma non riusciamo a riproporre la stessa genuinità nelle relazioni”.
Savino – “Avere nostalgia delle persone non equivale a rimpiangere un tempo passato. La nostalgia tende a restituire stereotipi di una certa vita rurale, senza raccontare le sue reali dinamiche. Dovremmo promuovere un discorso ‘eclettico’ più che nostalgico: essere in grado di guardare al passato prendendo il buono da quello stile di vita. C’è una parte di quella storia che oggi possiamo osservare con occhi diversi, attualizzarla e renderla utile. La montagna è stato un luogo di estrema fatica e povertà, mentre oggi è altro: una passeggiata lenta e in compagnia. La nostalgia, poi, si presta facilmente all’inganno e il rimpianto rischia di bloccare il presente”.
Virginia Chiavaroli