
Quando si parla di Intelligenza Artificiale (in sigla, I.A.), in senso ampio e onnicomprensivo, possiamo riferirci al complesso e all’insieme di tecnologie (elettroniche e digitali, in particolare) che interagiscono tra loro al fine di permettere alla “macchine” di percepire, apprendere, capire e agire con livelli di intelligenza comparabili a quelli degli esseri umani. A seconda che l’intelligenza artificiale, così intesa, venga strutturata per imitare quella umana solo per specifici compiti e singole caratteristiche oppure per emularla nella sua interezza, pensando in modo strategico, ragionando in astratto, utilizzando la creatività, addirittura considerando gli aspetti emozionali in gioco nelle situazioni, si parla rispettivamente di I.A. “debole” o di I.A. “forte”.
E se l’Intelligenza Artificiale “forte” (o “generale”) sembra ancora essere soprattutto oggetto di desiderio degli studiosi che stanno dedicando la loro vita al suo sviluppo, e soggetto di strepitosi e troppo spesso apocalittici film hollywoodiani sull’argomento, l’I.A. “debole” (o “specifica”) è già una realtà ed è impiegata in tantissimi contesti senza che, spesso, nemmeno ne siamo consapevoli. Dalle app sul meteo, agli assistenti digitali integrati negli smartphone, dai videogames ai software che analizzano i dati dei mercati finanziari, i sistemi di I.A. specifica sono molto potenti e sono legati soprattutto al concetto di “efficienza”. Infatti, l’emulazione dei processi cognitivi della mente umana, unita alle potentissime e velocissime capacità di calcolo dell’elaborazione elettronica (esponenzialmente tendente ad una sempre maggiore potenza e velocità, basti pensare al futuro dei “computer quantistici”), permette soprattutto di velocizzare le procedure di analisi e di risposta dei risultati, la cui efficacia però continua a dipendere dalla “capacità” che sta alla base del ragionamento eseguito dalla macchina: l’intelligenza dell’uomo.
Lasciando da parte le preoccupazioni dei detrattori dell’I.A. così come le raccomandazioni degli stessi sostenitori e utilizzatori della nuova tecnologia (lo stesso Elon Musk, sulla cui capacità di “visione” proiettata ad un futuro ipertecnologico non si può obiettare nulla, ha detto che bisogna stare molto “attenti all’intelligenza artificiale, potenzialmente più pericolosa del nucleare”), sono già numerosissime le sue applicazioni “a favore” dell’uomo. E se abbiamo imparato già da tempo a conoscere i benefici dell’utilizzo dell’I.A. nel campo della medicina, della diagnostica e della chirurgia, messi a disposizione “del corpo umano”, più recentemente si sta lavorando per mettere questa tecnologia a disposizione anche della psiche umana e dei suoi disturbi. In pratica, una sorta di auto diagnosi e di autogestione delle disfunzioni della mente e dei suoi pensieri “mediata” da un elemento esterno (la I.A.) strutturata sulla base di meccanismi e contenuti analoghi alla stessa mente.
Uno dei più recenti ambiti di applicazione della I.A. specifica è quello dell’analisi e del supporto per la gestione delle “dipendenze” (sia che ci si riferisca a “sostanze” sia che si parli di dipendenze comportamentali). Sono state, ad esempio, create delle app per ottimizzare il monitoraggio della “dipendenza” oggetto di analisi e per migliorare la qualità degli interventi nel trattamento del disturbo del comportamento. In questi casi, l’I.A. è stata interfacciata a modelli di V.R. (Virtual Reality o Realtà Virtuale) per simulare e ricreare ambienti nei quali un soggetto si trova in situazioni che ne condizionano il desiderio irrefrenabile (detto craving) e il consumo o il comportamento compulsivo.
Ha avuto una certa rilevanza mediatica, a luglio dell’anno scorso, la partenza di una prima sperimentazione in Italia per impiegare l’Intelligenza Artificiale nella “lotta” al gioco d’azzardo patologico, coordinata dal dipartimento per le dipendenze dell’Ulss 6 Euganea di Padova. Mescolando Realtà Virtuale (nella generazione degli scenari “condizionanti”) e Intelligenza Artificiale, l’obiettivo è quello di identificare i soggetti “sensibili” in un’ottica di diagnosi e prevenzione della dipendenza dal gioco. La differenza tra un “normale software” strutturato per un simile utilizzo e l’impiego dell’I.A. sta proprio nello sviluppo continuo del programma che, come una mente viva, “impara” ed evolve in funzione delle variabili che incontra e delle esperienze che “vive”. Nella sperimentazione lanciata in collaborazione con un’industria digitale ligure, la fase cardine è stata certamente quella dell’addestramento dell’algoritmo di Intelligenza Artificiale, al fine di “imparare” a riconoscere alcuni marcatori biometrici digitali (o “digital biomarkers”) da utilizzare nell’analisi precoce dei soggetti a rischio di dipendenza (nel caso specifico, al gioco d’azzardo) o nella diagnosi del disturbo comportamentale. Per effettuare questo addestramento, è stato arruolato un campione clinico (popolazione con diagnosi di disturbo da Gioco d’Azzardo Patologico) e uno non clinico (popolazione generale) di persone che, poi, sono state “immerse” nella stessa esperienza virtuale, recuperandone le reazioni, i comportamenti e tutti i dati fisiologici legati alle risposte dell’organismo, nel suo insieme, al vissuto specifico, e comparandoli tra i due campioni di riferimento.
Direttamente dal mondo dei più avveniristici video games, alle persone coinvolte è stato fornito un kit composto da un visore VR (VR Head Mounted Display – HMD), un sensore wearable (indossabile) e uno smartphone, necessari per la creazione di un “setting virtuale ad hoc”, in tutto simile alla realtà ma privo delle conseguenze negative che possono intervenire, invece, in un setting reale. Nel caso di specie, il visore, costituito da un casco immersivo senza cavi Oculus che mostra a chi lo utilizza video digitali a 360°, ha ricreato ambienti quali sale scommesse, bar che vendono gratta e vinci e o sale di videolottery con slot machines. Così, mentre la persona era coinvolta nell’esperienza di realtà virtuale, venivano automaticamente raccolti alcuni dati: la posizione dello sguardo in base alle coordinate verticali e orizzontali, così da generare una “heat map”, o feedback visivo, che è in grado di indicare su quali oggetti lo sguardo si è maggiormente soffermato; la correlazione ai parametri fisiologici (digital biomarkers) come la frequenza cardiaca, rilevati in contemporanea da un sensore collocato sull’avambraccio, per valutare come variano in funzione dell’immagine visionata dall’utilizzatore; i feedback visivi scanditi, istante per istante, così da mettere a fuoco l’area a maggiore impatto emotivo della scena simulata nel setting di gioco.
Da strumento all’avanguardia per la diagnosi e l’analisi precoce di un disturbo comportamentale, l’Intelligenza Artificiale vuole evolvere e “passare all’azione”. I suoi sviluppatori puntano, infatti, decisamente verso nuovi obiettivi, più grandi e ambiziosi. In primis, generare algoritmi capaci di riuscire, sempre in ambienti protetti e virtuali, ad intervenire sui disturbi comportamentali e, quindi, a curarli.
In attesa che macchine potentissime, intelligenti come noi ma più veloci ed efficienti nelle elaborazioni, prendano definitivamente il potere sul pianeta Terra, non possiamo che esultare di fronte alle possibilità, e ai primi risultati, che l’I.A. applicata ai bisogni e alle problematiche degli esseri umani sta dimostrando di poter raggiungere.
Sandy Littleshoos