In principio e non parliamo della notte dei tempi, anche solo di dieci anni fa i temi della sostenibilità in azienda erano affidati alla sola sensibilità di qualche manager illuminato – magari di formazione in “Casa Olivetti” – e di alcune funzioni aziendali più lungimiranti che li usavano come leve di comunicazione. Nella maggior parte dei casi almeno fino alla Direttiva europea che imponeva anche la reportistica non financial (i report di sostenibilità per capirci) nel 2014 – e in odore di cambiare per meglio includere gli ESG dell’Agenda 2030 – erano i reparti Hr, piuttosto che non la finance in azienda a vedersi appioppare la bega di occuparsi del tema. In realtà la prima spinta al cambiamento è arrivata con i primi CSR manager o Corporate manager, quando avocavano maggiori responsabilità. Spesso più orientati alla charity verso la community esterna, o alle attività di team building interno. I più avanguardisti tra il 2017 e il 2018 si sono cimentati anzitempo con lo standard ISO 26000 nelle proprie aziende. Innescando un cambiamento del paradigma culturale.
Poi la pandemia ha funzionato da straordinario acceleratore: merito della combinazione della necessaria transizione ecologica, abbinata ai temi dell’innovazione. E senza nascondersi: i fondi del PNRR a pioggia verso gli stati membri dell’UE, Italia in primis. Si è delineata così nelle aziende, specie le più grandi e strutturate prima, come anche piccole oggi, una vera e propria opportunità professionale. Quella di diventare un sustainaibility manager: modernizzando tutte le strutture interne alle società e connesse ai temi di health, safety ed environment. Esistono ormai veri e propri master – anche di livello executive – specie in quelle realtà universitarie e di formazione che consentono di apprendere quella visione strategica, le novità e le best practises, affinare le competenze e dotarsi di quegli strumenti operativi per gestire nell’organizzazione aziendale i processi di sostenibilità. E non solo i progetti e le situazioni connesse all’economia circolare e spingere verso l’innovazione non solo tecnologica, ma anche sociale.
Sono temi strettamente connessi alle leadership più forti del momento al mondo: da Greta al principe William, passando per milioni di giovani meno noti. La sensibilità sta velocemente contribuendo a riconfigurare perfino i modelli di business, come spingendo verso l’ideazione di nuovi, al passo dell’attuale scenario. Governato da professionisti capaci di comprendere i cambiamenti in atto e di gestirli al meglio nelle diverse funzioni aziendali. È opportuno privilegiare quei percorsi formativi che offrono la possibilità, di ottenere le certificazioni professionali di settore, secondo la UNI/PdR 109 per i profili professionali nell’ambito della sostenibilità. O come Sustainability Manager e Practioner.
Per questo alcuni percorsi formativi hanno deciso di affiancare alla sostenibilità le tematiche della social innovation, come l’offerta formativa dell’ALTIS, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Cetif, nella stessa realtà milanese. Il lockdown ha di fatto sdoganato le modalità miste anche nei corsi universitari, con il distance learning, che non preclude le potenzialità di networking, che queste esperienze includono sempre. Esistono poi progetti che coinvolgono diverse realtà universitarie insieme, The Good Business Academy, che mette a sistema la parte accademia con il Consorzio Universitario di Economia Industriale e Manageriale (CUEIM) e le imprese. Con un occhio importante alle B Corp: i modelli d’impresa for good su tutti gli stakeholder, società e ambiente e sul lungo periodo, for future. In fondo il pensiero di Adriano Olivetti resta quanto mai attuale, quasi quanto nel secondo dopoguerra era avveniristico: “Questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno.”
Angela Oliva